Lo hanno chiamato “isolazionismo”. A me ha cambiato la vita

LABRADFORD – S/t (1996)

St LabradfordAmo la musica al punto da non essere in grado di compilare le classifiche di fine anno, tanto mi sembra ingiusto includere, escludere, mettere in competizione chi la fa.

Sono tantissimi i dischi che mi piacciono in un anno, figurarsi in un decennio, figurarsi in una vita. Però i dischi che mi hanno cambiato l’esistenza sono pochi. Non è nemmeno necessario che siano capolavori, magari sono solo il suono giusto al momento giusto. Quanti saranno questi dischi? Dieci, dodici? Diciamo di sì. Uno è questo. Arriva dal nulla, recensione di un gruppo sconosciuto. Siccome è il 1996 e i dischi si comprano e basta, lo compro e basta. Felice intuito, quella volta. Un 23enne in cerca del suo posto nel mondo, più tendente all’introspezione che alla socialità, torna a casa con quella che sarà la colonna sonora dei suoi momenti più riflessivi, per molti anni.

I Labradford sono in tre, vengono dalla Virginia ed escono per un’etichetta di Chicago che non ho mai sentito nominare: si chiama Kranky. Da quel momento il “suono Kranky” diventa paradigmatico per me e per il mondo. Ci sono le chitarre, ma è quanto di più lontano da un assolo in posa plastica si possa immaginare. A dominare sono i synth e i pedali, ma anche qui è tutto dosato, pare di camminare su qualcosa di morbido ma non del tutto confortevole, un suono apparentemente freddo, ma concedigli anche solo un briciolo di attenzione e ti entra nelle viscere.

Quando si parla dei miei Ronin si citano i Calexico e Morricone, ma è stato questo l’album che mi ha fatto ricominciare a suonare la chitarra. Vado a vederli a Genova, siamo in una quindicina a dir tanto. Uno è Giovanni Succi, che all’epoca nemmeno conosco, ma finiremo insieme a fare i Bachi Da Pietra. Tutto quello che ho fatto, anche le cose più lontane da questa oasi di ovattata riflessività, ha dentro un po’ di questi pezzi.

“Pico”, il terzo brano, diventa un mio piccolo inno personale. Quello che non si urla, che rimane in gola, che vorresti dire a qualcuno ma tanto sai che non servirebbe a niente. Lo tieni per te come un gioiello di consapevolezza, e così sia. “Lake Speed” mi lascia letteralmente dilaniato ogni volta che la ascolto, “in pieces on the floor”, come recita il testo. Durano solo sei anni, e fanno sei album, uno più meraviglioso dell’altro. Poi mollano perché pare funzioni meglio il progetto solista di uno di loro, Pan American. Peccato, ma anche bene così, non hanno fatto in tempo a deteriorarsi. Lo hanno chiamato “isolazionismo”. Non amo le definizioni, ma questa rende l’idea. Per me questo è un rifugio sicuro, quando là fuori il mondo si fa insostenibile.

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