In “Hammamet” un magnifico Savino e una parte che non convince

Hammamet Favino Hammamet (di Gianni Amelio, 2019)
Come credo tutti sappiate, Hammamet è una città tunisina che ha ospitato il leader del Partito Socialista Bettino Craxi dal 1994 al 2000, anno della sua morte.
Il film, dopo un breve incipit ambientato nel congresso del 1989, narra l’ultimo anno di vita del politico visto essenzialmente come un uomo solo, malato e che mai è riuscito a scrollarsi di dosso il suo ego e il suo narcisismo.
Il film mostra anche due personaggi molto importanti: la figlia del protagonista che cerca fino all’ultimo di salvargli la vita, curarlo e portarlo in Italia, e un fantomatico e non reale figlio di un compagno di partito, che arriva ad Hammamet con intenti misteriosi, senza però avere la forza di trasformare il film in un giallo.

Parlare di leader politici recenti e morti in maniera naturale, controversi e tuttora divisivi, è impresa ardua. Soprattutto quando non c’è una morte o un mistero ad accompagnare.
C’è riuscito sicuramente Sorrentino col suo Il Divo su Andreotti, realizzando un’opera surreale (e assolutamente accattivante), ci ha provato Amelio mettendo in scena una vicenda non storica (il Politico che non è più in carica), cancellando i nomi di tutti i protagonisti reali (da il Presidente ai nomi cambiati dei figli), e affidando la macchina da presa a un Pierfrancesco Favino che veste completamente i panni del Presidente come poche altre volte la storia del cinema ha potuto assistere.

Favino/Craxi non ruba la scena, perché è la scena stessa, si racconta senza che il regista possa porre alcun filtro, con il personaggio e l’attore protagonista che si fondono in una creatura unica, che permette tra l’altro ad Amelio di mettersi al riparo da accuse di revisionismo, poiché si limita a mostrare i suoi protagonisti come se fossero in un’intervista o un documentario.

Hammamet è probabilmente un film che parla di solitudine, di rapporti spesso incompiuti tra padri e figli, tenendo sullo sfondo un’Italia certamente reale ma davvero lontana parecchie miglia d’aria. Ciò che non convince è la parte onirica finale, legata al principale protagonista non reale della vicenda, che vuole lanciare un messaggio (vuole?) forse politico, forse umano, sicuramente in bilico tra emotività e storia italiana, ma che tende a non lasciare una traccia indelebile né nella storia del cinema né nella vita di un politico che mancando da vent’anni è già un’icona, volenti o nolenti.

Le musiche di Piovani, incentrate su una rivisitazione dell’Internazionale Socialista, donano un ulteriore elemento malinconico a un film per cui sarebbe in ogni caso opportuno conoscere la vicenda… scusate, la Storia.

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