Diciotto anni di carcere possono bastare: «Basta con le rapine, ora faccio il cuoco»

La storia di un 40enne cresciuto dove la mafia comandava, detenuto in varie parti d’Italia: «In cella a Ravenna per la prima volta ho sentito la fiducia degli altri per il mio recupero. Ma all’inizio mi stupivano gli scherzi “tra guardie e ladri”»

Arresti

L’appuntamento è in stazione a Ravenna. Mario, nome di fantasia, si fa trovare su un lato: «Dall’altra parte so che a volte ci stanno quelli che spacciano e non mi va che qualcuno passi, mi vede e magari si fa strane idee». Perché il 40enne Mario ha deciso che con il crimine non vuole avere più niente a che fare, manco per sbaglio: diciotto anni di carcere possono bastare. Oggi vive con la famiglia e può uscire di casa tra le 7.30 e mezzanotte ma non può lasciare la provincia di Ravenna: da un anno è in regime di affidamento, misura alternativa alla detenzione concessagli perché arrivato a metà della pena residua. Da poco si è aggiunta un’ulteriore condanna per episodi passati e così il residuo è salito a sette anni e mezzo: «Prima o poi penso che dovrò tornare al regime di semilibertà, di giorno al lavoro e di notte a dormire in carcere. Per ora non ci penso e continuo il mio percorso». Mario oggi fa il cuoco in un locale sulla costa ravennate.

Quando è entrato in carcere per la prima volta?
«A 19 anni per una rapina. A undici avevo smesso con la scuola e sono cresciuto in un contesto che si può definire solo con una parola: mafioso. Avevo un padre padrone che a un certo punto ha preso mia madre ed è scappato lasciandomi solo. È stato quasi inevitabile prendere quella strada. La prima volta mi sono fatto quattro anni».

È uscito cambiato?
«È stata una scuola per tornare a delinquere. A nessuno là dentro interessava il nostro recupero. Accumulavo rabbia e vivevo 20 ore al giorno chiuso in una cella 4 metri per 4 con altri 12 uomini più grandi e più esperti che progettavano i colpi da fare una volta usciti. Per loro è stato facile convincermi. Tra il 1994 e il 2007 sono stato detenuto in vari carceri d’Italia anche lontano da casa, avrò passato in libertà un anno e mezzo».

Che reati?
«Furti e rapine, solo quelli ho fatto in vita mia. Banche, poste e gioiellerie in giro per l’Italia, ci organizzavamo con i complici, restavamo via di casa qualche giorno e tornavamo. Non ho mai scippato un vecchietto perché mi pareva di fare male ai miei nonni che sono state le uniche figure che mi hanno voluto bene da bambino. E non ho mai toccato la droga. Chi mi conosce nel giro lo sa».

Ha mai avuto un lavoro legale?
«Nel 2007 trovai un posto da manovale per una ditta di edilizia e per due-tre anni ho lavorato in varie parti d’Italia. Poi è arrivata la crisi, il lavoro non c’era più e io avevo una famiglia da mantenere così sono tornato a fare quello che sapevo fare».

Cosa sapeva la sua famiglia di come arrivava il pane in tavola?
«Sto con mia moglie da quando io avevo 18 anni e lei 13. Sapeva tutto e non approvava. Ha provato spesso a farmi smettere. Ne ha sopportate tante, me ne rendo conto. Oggi che ho chiuso con quella vita posso dire che l’amore ha trionfato. Abbiamo dei figli che sono grandi, fino a quando erano piccoli mia moglie raccontava loro che ero via per lavoro oppure quando ero in carcere li vedevo una volta ogni due mesi perché ero distante e cercavamo di dire che era il mio posto di lavoro. Poi sono cresciuti e trovavano da soli il mio nome sul giornale quando mi arrestavano e per loro è stato anche umiliante. L’ultima volta uno dei figli me l’ha proprio detto…».

CarabinieriQuando è entrato in carcere a Ravenna?
«Nel 2014, mi arrestarono con altri per una tentata rapina alle poste e poi si aggiunsero le accuse di due colpi in gioiellerie e una banca. Per come ero abituato dalle mie esperienze in altri carceri, quando mi sono trovato dentro a Port’Aurea mi sembrava di essere in collegio e non in carcere…».

Quali erano le differenze rispetto alle detenzioni precedenti?
«Tutto. Chi aveva mai avuto un colloquio con un educatore al primo giorno di ingresso? Chi mi aveva mai chiesto che cosa mi piaceva fare e che cosa sapevo fare? Al massimo qualche corso di formazione ma poca roba. A Ravenna ho avuto la sensazione che a qualcuno interessasse davvero aiutarmi, ho avuto la percezione di un clima umano. Devo molto alla direttrice che ha sempre dimostrato tutta la sua disponibilità per aiutarci ed è una persona molto presente, ci mette la faccia e si impegna per prima. Gentile ma severa con chi sbaglia. Quando senti che qualcuno ti sta dando fiducia poi non vuoi provare la vergogna di tradirla e fai del tuo meglio».

E nelle sezioni delle celle che clima ha trovato?
«Mi rendo conto che arrivare con il mio curriculum di reati in un carcere come quello in cui tutti hanno piccole condanne forse mi ha facilitato l’ingresso perché pensavano chissà cosa di me. Per loro ero un rapinatore di banche. E io me ne stavo da parte. Però certe cose all’inizio mi stupivano e non le capivo. Vedevo i carcerati che scherzavano con le guardie, per le mie abitudini maturate in cella chi scherza con una guardia era da considerare un infame».

E agli infami cosa succedeva negli altri carceri?
«Quando tornavano in cella si prendevano le mazzate. Continuavano a prenderle fino a quando venivano spostati. A Ravenna non è mai successo e ho capito che questo rende più serena la permanenza e migliora la voglia di riabilitarsi. Una mattina uno degli agenti mi salutò per nome e io cominciai a chiedermi che cosa potesse volere da me. Poi ho capito che era quello il clima a Ravenna. E qualche tempo fa al mare ho incontrato uno degli agenti: ci siamo presi un caffè e mi ha pure presentato la moglie».

Che ricordi ha di Port’Aurea?
«I colloqui in un piccolo angolo verde all’aperto: sembra una cosa da poco ma aiuta a stare bene. E poi l’umanità delle guardie che ci lasciavano qualche minuto in più se mio figlio piangeva. Oppure la gentilezza di non perquisire i pannolini e le scarpine di un neonato per cercare droga perché magari hanno capito che si possono fidare».

Quindi la droga in carcere c’è…
«In alcuni sì, gira di tutto».

Come mai ha fatto il corso di cucina a Ravenna?
«A undici anni quando lasciai la scuola mi presero a lavorare in una pasticceria. Mi piaceva e un po’ mi sentivo portato».

Cucinavate per i detenuti?
«Non solo. La direttrice ha sempre cercato di aprire il carcere in molte occasioni, accogliendo autorità e associazioni. E noi in cucina ci occupavamo del buffet. In uno degli eventi organizzati preparammo da mangiare per 400 persone. E già quella è stata una bella soddisfazione. Poi mi trovai di fronte il capitano dei carabinieri che mi aveva arrestato, mi strinse la mano e mi disse che voleva vedermi così anche fuori».

Ha contatti con gente conosciuta in carcere?
«Ho deciso di tagliare tutti i ponti, anche con il coimputato del mio caso. Mi dispiace umanamente perché le nostre famiglie si conoscono ma credo sia meglio così, perché poi se ci troviamo i discorsi finiscono sempre sul passato e io non ci voglio più pensare a quel passato».

Com’è stato il rientro nella società?
«Difficile. C’è la crisi che vale per tutti e in più per chi è stato in carcere ci sono i pregiudizi. Ho portato in giro un po’ di curriculum. Il momento difficile veniva quando mi chiedevano che lavori avevo fatto prima: stavo vago, dicevo che mi ero trasferito da poco, ma poi i miei dati li hanno e oggi giorno vanno a vederla la tua fedina penale…».

Come ha trovato il posto da cuoco?
«Devo ringraziare una delle insegnanti dei corsi di cucina in carcere. Ha messo una buona parola lei e in primavera ho cominciato nella cucina di un locale al mare. Devo dire grazie ai titolari che hanno deciso di mettermi in prova e poi sono stati convinti dalla mia capacità. Mi muovo con treno e bus, che risparmio qualche euro rispetto alla macchina. Porto a casa uno stipendio e sapere che quelli sono soldi lavorati è una soddisfazione».

Qual è il suo piatto forte?
«Una ricetta tradizionale delle mie parti, molto semplice ma quando faccio quella vado sul sicuro».

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