La madre: «Un carabiniere mi disse che le sue indagini erano ostacolate in caserma»

Udienza 12 / Rosanna Liverani prende la parola in corte d’assise dopo la testimonianza del capitano in congedo Vincenzo Tallarico: comandava la compagnia subito dopo il delitto di Alfonsine nel 1987 ma per tutta la deposizione ha ribadito che delle indagini se ne occuparono altri. La perplessità del presidente della corte: «È sicuro di quello che ha detto?»

7La stessa risposta a tutte le domande: «Se ne occupò qualcun altro». Si può riassumere così l’interrogatorio di 40 minuti di Vincenzo Tallarico in corte d’assise a Ravenna dove oggi, 7 febbraio, il 66enne carabiniere congedatosi con il grado di capitano è stato chiamato per testimoniare nel processo per l’omicidio di Pier Paolo Minguzzi, il 21enne militare di leva rapito e ucciso ad Alfonsine nell’aprile 1987. Gli imputati sono tre: due ex carabinieri e un idraulico loro amico che già hanno scontato pene ventennali per un altro delitto di 35 anni fa. E la risposta di Tallarico – ripetuta quasi come un mantra, mostrando la palese intenzione di smarcarsi da responsabilità di ogni tipo – non avrebbe destato così tanta perplessità fra le parti, a partire dalla corte presieduta da Michele Leoni, se non fosse che all’epoca dei fatti il capitano originario di Messina era al comando della compagnia di Ravenna. E quindi chi si occupò degli atti di indagine di cui ora l’accusa, le parti civili e la corte hanno provato a chiedere conto? Tallarico ha puntato il dito in due direzioni: un suo sottoposto Luigi Bargelletti che nel frattempo è morto e il nucleo operativo senza troppe precisazioni.

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La sorella e la madre di Pier Paolo Minguzzi

La deposizione di Tallarico, nella dodicesima udienza di un dibattimento che si avvia alle battute finali e potrebbe giungere a sentenza proprio in aprile quando cadrà il 35esimo anniversario della morte, ha portato la madre della vittima a chiedere di prendere la parola davanti alla corte. L’87enne Rosanna Liverani, in aula per ogni udienza, ha già deposto nei mesi scorsi ma ora si è sentita di dover aggiungere qualcosa. In particolare ha voluto ricordare le parole di Bargelletti: «Fu il carabiniere che ci stette più vicino. Mi disse che avrebbe fatto di tutto fino a quando sarebbe stato in vita pur di scoprire i colpevoli. E ricordo che una volta mi disse che ce la stava mettendo tutta ma nella caserma di Ravenna trovava degli ostacoli. Mi è sembrato giusto ricordare questa circostanza dopo quello che ho sentito oggi». Liverani concede anche il beneficio del dubbio a Tallarico: «Ho sentito parlare una persona che doveva fare le indagini ma forse è stato come ha detto Bargelletti o forse non era all’altezza». Alla morte del militare, colpito da un infarto, alla famiglia Minguzzi arrivò un biglietto della vedova: «Mio marito non potrà mantenere la parola data».

Tallarico prese servizio al vertice della compagnia a dicembre del 1987, sostituendo Antonio Rocco otto mesi dopo l’omicidio Minguzzi. Contatti con il predecessore per un passaggio di consegne? «Quasi nessuno». Chi seguì le indagini? «La competenza per gli omicidi è del nucleo operativo, io non sapevo cosa facevano». Replica del pm: «Però non ha saputo indicare nemmeno un atto concreto svolto dal reparto». Di cosa si occupò lei? «Quando arrivai, il grosso delle indagini era già stato fatto…». Replica secca del giudice: «Ma il grosso poteva essere ingrossato ancora, non ci sono limiti alle indagini».

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I giudici togati della corte d’assise per l’omicidio Minguzzi

Insomma, anche a voler prendere la versione migliore del quadro dipinto dalle parole dell’ex capitano, emerge un’Arma che pure alle prese con due carabinieri ammazzati in un intervallo di tre mesi, aveva reparti che non dialogavano per le indagini. Anche il presidente Leoni si stupisce che non esistesse un tavolo di coordinamento fra reparti per lo scambio di informazioni.

L’unica parte di indagini che Tallarico ricorda di aver seguito è stata quella per giungere all’identificazione del sedicente Alex, un mitomane che cominciò a telefonare e scrivere lettere alla fidanzata di Minguzzi all’epoca. Per più di un anno il telefono di casa della famiglia della ragazza venne intercettato, mentre in parallelo la giovane doveva registrare le conversazioni per fornirle al fantomatico brigadiere Ciccio sotto copertura. Le intercettazioni vennero prorogate più volte con richieste firmate da Tallarico per via di non meglio precisati elementi utili emersi. Quali? Non vennero specificati all’epoca e l’ex capitano non sa inquadrarli ora.

L’avvocato Luca Canella rappresenta la madre di Minguzzi come parte civile. È lui a pronunciare la domanda che gira nella testa di tutti da mesi: «A luglio del 1987 arrestate gli odierni imputati per un omicidio al termine di una tentata estorsione, e non è venuto in mente a nessuno di collegare quei nomi al caso Minguzzi di tre mesi prima?». La voce di Tallarico non si scompone: «Qualcuno l’avrà pensato ma non avevamo elementi per farlo. Potrebbe essere che nella sfera del pensiero personale di qualcuno fosse presente l’ipotesi». Ma di cui non se ne parlò molto: «Le indagini spettavano al nucleo operativo». E qui è di nuovo il presidente della corte che interviene: «A voi non interessava? C’erano stati due omicidi e non pensavate di contribuire? Lei è sicuro di tutto quello che ha detto? Eravate il comando territoriale di Ravenna e stavate lì con una posizione meno che marginale davanti a due omicidi?».

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