Omicidio Minguzzi, la procura chiede tre ergastoli: «Movente economico»

Udienza 15 / Requisitoria di quattro ore per il pubblico ministero Marilù Gattelli che contesta tutte le aggravanti agli imputati per il rapimento del 1987. Ascoltate in aula le telefonate: «Uno degli imputati non si è mai presentato altrimenti i giudici avrebbero capito che è la sua voce»

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La pm Marilù Gattelli e l’ingegnere Sergio Civino

Dall’omicidio di Pier Paolo Minguzzi sono passati 35 anni esatti e per la prima volta in un tribunale c’è stata una richiesta di condanna. Stamani, 30 maggio 2022, in corte d’assise a Ravenna la procura ha chiesto tre ergastoli per i tre imputati. Il 21enne era il terzo genito di una facoltosa famiglia di imprenditori dell’ortofrutta di Alfonsine, studente di agraria a Bologna e carabiniere di leva nel Ferrarese: venne rapito il 21 aprile 1987 a scopo di estorsione (chiesti 300 milioni di lire come riscatto senza mai dare prova in vita dell’ostaggio) e ritrovato cadavere dopo dieci giorni legato a una grata da 16 kg nelle acque del Po di Volano in località Vaccolino. La richiesta dell’accusa (pm Marilù Gattelli) è per due ex carabinieri della stazione di Alfonsine e un amico idraulico dello stesso paese: nell’ordine il 58enne Orazio Tasca, il 59enne Angelo Del Dotto e il 66enne Alfredo Tarroni. I tre hanno già scontato pene ultraventennali per un altro omicidio avvenuto in circostanze analoghe appena tre mesi dopo, ma si sono sempre proclamati innocenti per il caso Minguzzi.

Omicidio MinguzziIl pubblico ministero non la pensa così: «Tutti e tre hanno concorso al rapimento, all’omicidio e all’occultamento del cadavere – sono state le parole di Gattelli al termine di quattro ore di lettura della requisitoria –. Ognuno con il proprio ruolo». Nel dettaglio è questa la spartizione dei compiti delineata dagli inquirenti: Tarroni aveva 31 anni ed era la mente, Tasca era il telefonista e Del Dotto la sua ombra. Vengono contestate diverse aggravanti: motivi abietti, minorata difesa della vittima, crudeltà. Di fronte a questo quadro la richiesta non poteva che essere per il massimo delle pena.

La procura inoltre ipotizza il reato di falsa testimonianza per due testi: per il brigadiere capo Stefano Giubbettini (in servizio ad Alfonsine all’epoca dei fatti) viene chiesta la trasmissione degli atti, per l’ufficiale in congedo Giorgio Tesser invece si lascia la decisione alla valutazione della corte.

Il movente sarebbe di natura economica. Tutti e tre, secondo le ricostruzioni degli investigatori e dei testimoni ascoltati in aula, avevano bisogno di soldi. Per coprire debiti o per vivere oltre le proprie possibilità, dal desiderio di un’auto nuova al gusto di andare al casinò di Venezia. A metà maggio del 1987 i due militari accusati tentarono di ottenere due prestiti in banca da 15 milioni di lire ma non ci riuscirono.

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Al centro, con la mascherina nera, Angelo Del Dotto. Alla sua destra l’avvocato Luca Silenzi

Sempre parlando di soldi, non è da considerare un caso, secondo la procura, che la cifra del riscatto sia la stessa chiesta tre mesi dopo a un altro imprenditore locale dai tre odierni imputati. A luglio 1987 infatti Roberto Contarini fu minacciato telefonicamente: doveva pagare 300 milioni per non fare la stessa fine di Minguzzi. Si trovò un accordo per la metà della somma e venne concordata la consegna del denaro. All’appuntamento qualcosa andò storto nella trappola orchestrata dagli investigatori dell’epoca per bloccare gli estorsori e nella sparatoria che scoppiò morì il 21enne carabiniere Sebastiano Vetrano (Del Dotto fece fuoco con un revolver di Tarroni). I tre uomini oggi alla sbarra furono arrestati in flagranza e condannati, ammisero di aver tentato l’estorsione a Contarini agitando lo spauracchio del caso Minguzzi – senza esserne gli autori – perché in quel periodo in paese c’era il panico e sembrò loro una leva forte per svuotare le tasche degli imprenditori.

7Ma c’è un punto di incontro tra le due vicende che la pm Gattelli ha sottolineato più volte davanti ai giudici (presidente Michele Leoni, a latere Federica Lipovscek). Alle 23.19 del 27 aprile il fratello della vittima, Gian Carlo Minguzzi, riceve una telefonata dai sequestratori: la voce anonima chiede se sta parlando con “Contarino”, poi si corregge chiedendo di “Contarini” e infine aggiusta il tiro con “Minguzzi”. Per l’accusa è una prova evidente che la banda stava pianificando entrambi i colpi e, nella goffaggine di chi criminale incallito non è, è stato usato un nome invece di un altro. Nel caso Contarini è acclarato che al telefono c’era Tasca. L’audio di due telefonate – una ricevuta dai Minguzzi e una da Contarini – è stato anche riprodotto in aula invitando i giurati a notare l’assonanza della voce siciliana. E aggiungendo un dettaglio sottile: «Tasca non è mai venuto in aula durante il dibattimento altrimenti avreste potuto sentire voi stessi la somiglianza del suo eloquio con queste telefonate».

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La riesumazione della salma di Pier Paolo Minguzzi nel 2018

Nelle conclusioni dell’accusa non poteva mancare un’ampia trattazione delle perizie foniche sulle telefonate. In sintesi estrema: quella elaborata dal consulente della procura ritiene alta la probabilità che la voce di Tasca nelle telefonate a Contarini e quella ignota a Minguzzi siano la stessa; per il consulente della corte invece questo è da escludere. Gattelli ha voluto ricordare ai giurati che i lavori sono stati svolti con due metodologie diverse e, a suo giudizio, quella del professor Luciano Romito non ha l’avvallo del rigore scientifico per via di una procedure soggettiva che riduce la possibilità di riproducibilità.

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Maggio 1984. La famiglia Minguzzi in partenza per la Nuova Zelandia per andare a conoscere meglio la coltivazione di kiwi. Il secondo da sinistra è il padre Egisto. Gli altri tre sono i figli: da sinistra Anna Maria Giancarlo e Pier Paolo

La lunga requisitoria del pubblico ministero ha dedicato un capitolo agli alibi. O meglio, all’unico che ne ha fornito uno: Del Dotto. La notte tra il 20 e il 21 aprile 1987 era di turno come piantone in caserma. Nel suo interrogatorio ha affermato di aver risposto più volte alle telefonate della madre di Minguzzi preoccupata perché non vedeva rincasare il figlio. La donna, commossa in prima fila quando ha risentito la sua voce nella telefonata, aveva già negato di aver chiamato il 112 in quei momenti concitati. «Se era di turno – chiede Gattelli –, perché Del Dotto non rispose al campanello della caserma alle 6 quando andò a suonare il cognato di Minguzzi per denunciare la scomparsa? Non rispose perché non c’era e sappiamo da più testimoni di quella caserma che chi era di turno nella notte aveva modo e maniera di uscire senza che altri se ne accorgessero».

L’8 giugno la prossima udienza con la parola alle parti civili (il fratello, la sorella e la madre di Pier Paolo Minguzzi). Poi toccherà alle difese con le proprie arringhe. È probabile che si cominci il giorno stesso. Al momento non sono in calendario altre udienze: la camera di consiglio potrebbe iniziare l’8 giugno.

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