«Se l’arte non provoca qualcosa, a cosa serve?» Oliviero Toscani approda a un museo

Al Mar di Ravenna i celebri scatti del fotografo che ha fatto parlare il mondo col suo immaginario sopra le righe.  «Fotografare è come guidare – dice –: non tutti sono autisti e non tutti sono autori»

Lupo Agnello Toscani

Se c’è una cosa che si può dire di Oliviero Toscani è che chiaramente non abbia il desiderio di piacere a tutti. Sovversivamente creativo e impegnato contro la pena di morte, quanto avventato e grossolano, per non dire peggio, in molte delle sue affermazioni pubbliche (ricordiamo la faccenda del rossetto “collegato” al femminicidio che ha portato a movimenti contro l’acquisto dei prodotti pubblicizzati dalla sua firma) è indubbio che le sue frasi forti e le sue immagini scioccanti abbiano fatto il giro del mondo.

Figlio di Fedele Toscani, primo fotoreporter del “Corriere della Sera” – e mano che immortalò il corpo esanime di Benito Mussolini dopo la sua “esecuzione” – studia fotografia e arte e si fa notare nel mondo della moda sin da subito, alla fine degli Anni ’60, per l’originalità del suo approccio.
Da quel mondo, dalla moda, non è più uscito, firmando per le più note riviste di settore, per le campagne di marchi come Valentino, Chanel e altri grandi stilisti, sino al lungo sodalizio con Benetton, dagli Anni ’80 fino al 2000, quando l’azienda – a causa delle foto di Toscani ai condannati a morte dello Stato del Missouri, che furono scattate senza dichiararne esplicitamente il fine pubblicitario – fu condannata a pesanti risarcimenti e subì un grave danno d’immagine. Ha girato il mondo anche il ritratto di una stremata Isabelle Caro, la modella malata di anoressia che morì nel 2010 lasciando impressa per sempre nel marchio Nolita il suo volto scavato e pieno di lentiggini.

Ma ciò che forse è meno noto di Toscani, sono l’impegno nella ricerca e gli aspetti meno provocatori della sua creatività, come la ideazione della Sterpaia, un centro di studio per la comunicazione situato nel Parco di San Rossore in provincia di Pisa, totalmente autosufficiente grazie all’energia solare. Centro da cui proviene anche Nicolas Ballario, curatore della mostra “Oliviero Toscani. Più di 50 anni di magnifici fallimenti” al Museo d’Arte della Città di Ravenna (Mar) fino al 30 giugno 2019. Toscani, che oggi è un ultrasettantenne tutt’altro che ammorbidito dall’età, ci ha raccontato a muso duro quel che orgogliosamente considera fallimentare.

Oliviero Toscani RitrattoSignor Toscani, ma perché intitolare un’antologica proprio ai suoi 50 anni di magnifici fallimenti e non ad altro? Dove ha fallito esattamente?
«Non è mica un difetto. Se qualcosa è magnifico vuol dire che va bene. I fallimenti per me sono più importanti delle cose riuscite. Ho pensato che questo dovesse essere il titolo e basta».

La provocazione è una costante nel suo lavoro: perché sceglie di comunicare in modo così forte?
«Se l’arte non provoca qualcosa, a cosa serve allora? Il mio linguaggio è questo. Quello che sto facendo mi va bene».

Parliamo della fotografia: ci sono tanti modi di essere fotografi. Cosa segna il confine, a suo parere, tra arte e mestiere?
«È come guidare un’automobile: ci sono quelli che vanno a spasso e quelli che vanno a lavorare. Non tutti quelli che guidano sono autisti, così come non tutti quelli che fanno fotografia sono autori».

Lei ha frequentato per tutta la vita il mondo della moda: cosa pensa in particolare della fotografia legata a questo tema e come sceglie i soggetti?
«Nella fotografia di moda ci vuole ancora più creatività. I soggetti vengono scelti in base a cosa devo fare. L’anoressia, l’angelo o il diavolo sono venuti fuori perché avevo prima un’idea in testa, un progetto. Non si esce di casa con la macchina andando in giro a cercare i soggetti da fotografare come si faceva nel secolo scorso.

Oggi fare una foto è come realizzare un film, solo che bisogna essere registi, sceneggiatori e cameraman allo stesso tempo». Dal punto di vista tecnico cosa predilige?
«Niente in particolare, solo ciò che mi serve per fotografare. Tornando alla metafora del guidatore, l’importante è che prima di prendere la macchina si vada a scuola guida per la patente».

Fotografia e società, oggi e domani.
«Il linguaggio fotografico ora è il più importante. Tutti sanno fotografare e scrivere, tutti hanno una macchina in tasca e non si tornerà più indietro. È il linguaggio più popolare, democratico e accessibile. Poi ci sarà sempre differenza tra Van Gogh e il pittore della domenica».

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