lunedì
14 Luglio 2025
libri

La pericolosa spirale dell’amore e dell’arte

Recensione a Gianfranco Tondini, Nella spirale di Fermat (Fernandel, 2025)

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Il libro verrà presentato venerdì 6 giugno (ore 18) a Ravenna, alla Fondazione Sabe per l’arte (via Giovanni Pascoli 31). L’autore sarà in dialogo con Massimo Pulini

9788832207750 0 0 0 0 0D’emblée, il primo romanzo di Gianfranco Tondini, attore, drammaturgo e regista teatrale, è la storia di un fallimento amoroso – con possibile punto interrogativo finale lasciato all’immaginazione dei lettori. Ma questo è soltanto uno dei livelli di scrittura presenti nel testo. Un secondo, altrettanto importante e, per la sua estensione, certamente dominante, è quello che racconta che cosa sono, anche, il mondo e il mercato dell’arte.

Ma vi sono pure altri livelli, che vedremo tra poco. Naturalmente anche il titolo e l’esergo sono importanti. La spirale di Fermat fu descritta dal francese Pierre de Fermat (Beaumont-de-Lomagne, Tarn-et-Garonne, 1601 – Castres 1665), consigliere al parlamento e avvocato, ma appassionato di matematica, che si occupò inoltre, come Blaise Pascal, del calcolo delle probabilità in problemi di giochi d’azzardo (e si vedrà, a proposito dell’episodio dell’opera di Brancusi, come l’azzardo c’entri molto col nostro romanzo). La spirale di Fermat è una spirale doppia di tipo archimedeo, conosciuta anche come spirale parabolica, i cui due bracci si sviluppano in direzioni opposte, senza mai intersecarsi. Come accade ai due protagonisti, Wainer e Sara: prima lui insegue lei, poi lei, lui, senza mai incontrarsi. E la spirale avrebbe segnato il cammino di avvicinamento all’opera di Land art del grande artista Reinhard Bohrst, One Thousand Primordial Infixions, protagonista assoluta del romanzo, che si sarebbe dovuta realizzare in cima a una collina, comprata per procura, ma coi suoi soldi, ahimè, da Waimer: una spirale «che salendo concentricamente lungo i fianchi della collina avrebbe portato il pubblico fino alla sua sommità e poi, grazie alla curva centrale del suo disegno, lo avrebbe ricondotto in basso, lungo un’analoga e parallela spira discendente», in una sorta di «rito collettivo che evocava ricorrenze binarie di armonie universali». Bohrst, nome inventato dall’Autore, è, nella finzione del testo, uno dei più importanti artisti sulla scena internazionale, le cui opere, «Debordanti dal genere della Land Art […], competevano con la natura e si collocavano su vasta scala in interi quartieri, o in laghi e fiumi, in ampie zone del deserto, nelle highways di Detroit, in una acciaieria cinese o in un circuito automobilistico. Addirittura alcune erano provocatoriamente visibili solo dall’alto e una era stata concepita per i satelliti».

Gianfranco TondiniUn altro livello di lettura è il fatto che molti dei personaggi del romanzo sono liberamente ispirati a persone e amici conosciuti dall’Autore. Alcuni ne escono bene (come Fausto Fori alias Marcello Landi), altri un po’ meno; di altri posso supporre solo il camouflage: chi sono, ad esempio, Riccibitti e la Trilussa?

Anche alcuni luoghi – quarto livello – sono reali, legati alla città in cui l’Autore vive, Ravenna. Tra questi, in primis, la Galleria Ninapì, storico luogo d’incontro di artisti di tutto il mondo ospitati da quella straordinaria figura di proprietario che era Nando Randi; galleria messa in vendita dopo la sua scomparsa, acquistata, ristrutturata e riaperta nel 2021, come Fondazione SABE per l’Arte, da Norberto Bezzi e da Mirella Saluzzo. O Palazzo Testoni, che un ravennate non fa molta fatica a identificare con Palazzo Rasponi dalle Teste. Un altro luogo citato è l’Accademia di Belle Arti di Ravenna, recentemente statalizzata, frequentata dalla giovane assistente di Wainer, Raniera (chissà se ispirata a un nome maschile?).

Un quinto livello di lettura sono i nomi di alcuni artisti e personaggi reali citati nel romanzo. Tra questi, John Surman, musicista jazz britannico, Reiner Ruthenbeck, artista tedesco, Adolph Dietrich Friedrich Reinhardt, noto come Ad Reinhardt, Barbara Giorgis, artista, Mathieu Wilhelm, presentatore televisivo di Museum TV, Véronique Lamquin, cheffe du pôle Idées del quotidiano «Le Soir», Louise Majorelle e André Sornet, entrambi designer francesi, i CaCO3, gruppo di artisti

mosaicisti operanti a Ravenna: Âniko Ferreira da Silva, Giuseppe Donnaloia e Pavlos Mavromatidis, Margherita Chiarva, fotografa; appare persino una storica rivista musicale come «Muzak», fondata a Roma nel 1973 con primo direttore Giaime Pintor. Un gioco, dunque, tra finzione e realtà.

Quello di Wainer dovrebbe essere uno dei mestieri più difficili – ma fors’anche più belli – del mondo, dal momento che riunisce, in concordia discors, «due aspetti solo all’apparenza difficilmente compatibili. Da una parte il commercio, guidato dal principio dell’azione e del possesso, e dall’altra il puro piacere della contemplazione, che si irraggia attraverso il passivo distacco materiale». Tondini ci spiega molto bene, dal punto di vista del funzionamento biologico del nostro organismo, che cos’è quest’ultima: «Durante la contemplazione estetica, alla quale i più arrivano attraverso un’educazione, il cervello si dispone nel cosiddetto stato di riposo, una modalità con un nome e una sigla, il Default Mode Network, DMN, durante il quale è tutt’altro che a riposo, poiché l’aumento del metabolismo permette una particolare sincronia fra diversi gruppi neuronali. Ben cinque regioni cerebrali, come quasi mai accade, si accendono e attivano fra loro intense connessioni, le più utili a sollecitare al massimo grado l’elaborazione introspettiva. Gli impulsi all’azione fisica si spengono e il cervello entra in una modalità di funzionamento chiamata ristoratrice, che grazie anche alla generosa erogazione di oppioidi endogeni, le endorfine, infonde all’atto della contemplazione un piacere appagante, unico, intenso e acquietante, il piacere estetico, appunto, un piccolo Nirvana concesso a pochi».

Così come anche la professione di Sara sarebbe invidiabile, essendo funzionaria presso l’ICOM (International Council of Museum) a Parigi, organismo dell’Unesco istituito per creare iniziative e relazioni diplomatiche fra i musei di tutto il mondo, con l’incarico di occuparsi delle complesse questioni riguardo alle restituzioni di opere rubate. Ma il lavoro, da solo, ci fa capire l’Autore, non basta se non c’è anche l’amore.

Prima di dire due cose sulla trama, senza svelare, come buona regola di una recensione, il finale, volevo ancora citare un bel passo del romanzo in cui si spiega, con bella sinteticità, che cos’è l’arte contemporanea (su cui esistono in particolare due famosi saggi, di Francesco Bonami e Angela Vettese, evidentemente rivolti a chi la considera ancora un oggetto sconosciuto): «L’arte contemporanea è esclusiva nel vero senso della parola, perché esclude dalla sua comprensione chi non conosce il mondo concettuale che la sovrasta. È un ambiente elitario con codici specifici e concatenati, a differenza dell’arte del passato che si basava su strutture conosciute da tutti come i testi sacri, i miti o la storia. Le correnti artistiche del Novecento da cui deriva hanno invece dei singoli codici interni molto particolari: il cubismo elabora sistemi plastici della forma, il surrealismo il mondo onirico, il costruttivismo l’ingegneria, l’informale si fonda sul gesto casuale, l’arte concettuale su se stessa, eccetera, eccetera, eccetera. Qualcuno ha paragonato tutte quelle chiavi di interpretazione a delle password. In questa Babele estetica c’è poi l’interferenza dei cosiddetti nuovi linguaggi, accreditati da una piccola comunità di art advisor, critici delle riviste di vertice, galleristi e curatori di eventi che, ancor più lontani dal senso comune e ciascuno per i propri scopi, regolano il mercato. L’impopolarità dell’arte contemporanea si presta perciò a equivoci e bluff».

Ed ecco, in cauda, una brevissima sinossi del romanzo. Apparentemente rovinato dall’improvvisa scomparsa di Bohrst, con tutto il peso di una collina, appena acquistata, sul groppone, Wainer, personaggio troppo fiducioso degli altri e, perciò, in balia degli eventi, si trova tra le mani la possibilità di acquistare, giocando al ribasso e facendo finta di non riconoscerne l’autenticità, un’opera originale di Brancusi, uno dei più importanti scultori del Novecento. Wainer finirà per scoprire che anche questo tentativo di recuperare i soldi della collina non è altro che una fatale illusione. Sara, dal canto suo, per tentare di risolvere una brutta faccenda scoppiata a seguito del furto di due Rembrandt – uno dei quali, A Young Man, Perhaps the Artist’s Son Titus, era in realtà una copia che il museo proprietario aveva sempre esposto come vera e, svelarlo, avrebbe infranto «la credibilità dei musei, il loro capitale più prezioso, il fondamento del sistema» – finisce con

l’essere scelta dai suoi capi per consegnare il denaro agli autori del furto. Tutto ciò, affiancato da una serie di altri eventi che vedono la comparsa di personaggi collaterali, più o meno legati al mondo dell’arte, come l’esilarante Johnny Potenza, sedicente artista, fautore della corrente dell’arte imitativa, consistente nel riprodurre esattamente le opere di altri artisti, una sorta di borgesiano Pierre Menard.

Wainer ha un disastroso incidente sulla sua collina, mentre Sara vive un altro tipo di disavventura, di natura espressamente femminile, quasi che entrambi dovessero attraversare il dolore per ottenere una liberazione catartica dai loro fallimenti. Wainer e Sara saranno destinati a un’eterna spirale di Fermat? A mai più incontrarsi? Chi leggerà, vedrà (forse…).

Un’ultima cosa: essendo chi scrive un “malato” di architettura, ho apprezzato molto il passo in cui si cita la sede dell’ICOM, istituzione, come detto, per cui Sara lavora, collocato nella sede parigina dell’Unesco, un «edificio celebre, brutalista, grande e incombente, scarsamente ingentilito dalla triplice facciata concava». Realizzato tra il 1955 e il 1958 su progetto di due star dell’architettura del Novecento, Marcel Breuer e Pier Luigi Nervi e del meno celebre Bernard Zehrfuss, l’edificio s’inserisce perfettamente in questo momento di riscoperta e celebrazione di un movimento architettonico, il Brutalismo, che solo gli esperti conoscevano, prima che un film, eccessivamente premiato a Los Angeles, lo rendesse noto al grande pubblico.

Che stupido, dimenticavo l’esergo di Nathan Shaham: «L’amore è egoismo esteso. | Le nostre azioni sono assurde. | I nostri fallimenti sono privi di senso». Con questo viatico, forse non vi è da sperare in un happy end.

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