Teverini: «Non si mangia più per necessità e a tavola cerchiamo sempre novità»

Da mezzo secolo in cucina a Bagno di Romagna (33 anni da stellato): «Nel mio menù ci sarà sempre il tartufo. L’apericena non è ristorazione»

TeveriniIl primo impiego dopo il diploma è stato come impiegato in un calzaturificio, ma la carriera è durata un giorno e mezzo. Più lunga invece quella da cuoco: mezzo secolo. Paolo Teverini ha cominciato nel 1971 a Bagno di Romagna, il suo paese natale sull’Appennino forlivese, nell’hotel Tosco Romagnolo di proprietà della famiglia della sua fidanzata dell’epoca poi diventata moglie. Nel 1986, nella stessa struttura, è nato il ristorante che porta il nome dello chef: da tre anni Teverini aveva la stella Michelin e l’ha conservata senza interruzioni fino al 2016.

«In cinquant’anni cosa della sua cucina è cambiato e cosa è rimasto uguale?»
«Il mio Dna è lo stesso. Ad esempio il tartufo è il mio mondo perché è un prodotto del territorio e pur venendo da una famiglia umile non è mai mancato nella nostra cucina per cui andavano a raccoglierlo: ricordo da ragazzino di aver caricato mio nonno 94enne sulla Vespina per portarlo nel bosco. Quello che è cambiato è la finestra che tengo aperta sul mondo: mi piace esplorare e aggiungere nuove tecniche. E di sicuro è cambiata la facilità di reperire le materie prime: oggi mi basta mandare un messaggio Whatsapp a un pescatore e mi arriva il prodotto al ristorante, agli inizi dovevo andare al mercato di Rimini».

«Ci sarà sempre qualcosa di nuovo da introdurre in cucina?»
«Ora non mangiamo più solo per necessità fisiologica di sopravvivenza ma anche per stare insieme e provare nuove esperienze. Questo ci porta a modificare la nostra alimentazione, cerchiamo sempre qualcosa di diverso».

«La pandemia che tracce ha lasciato nella ristorazione professionale?»
«Ha lasciato problemi economici per molte persone, ci ha costretto a lavorare sotto numero per i contagi e non sempre abbiamo potuto eseguire alla perfezione i nostri compiti. Però ha anche mostrato il piacere di un pasto al ristorante che prima era così comune da sembrare scontato. Tra la gente vedo la soddisfazione di tornare a tavola».

«Come vive il rapporto con i clienti?»
«Io sto in cucina ma cerco di incontrarne più possibile per parlare con loro perché mi aiuta a capire. Poi alla fine decido io se fare o no quello che mi chiede, ma confrontarsi è importante».

«I clienti moderni sono migliori o peggiori?»
«Un cliente competente, curioso e disponibile a spendere come quello degli anni ’90 credo non tornerà più. Ora viviamo una decadenza culturale in tutti i settori. Ci ritroviamo dei modelli di ristorazione che sono lontani dai miei ideali, in cui la figura del cuoco è messa da parte: l’apericena significa bere vino di dubbia qualità e mangiare cose fredde da un bancone. Serve per cenare con 15 euro ma non è ristorazione».

«Si sente dire che conservare la Stella è una pressione e perderla è un trauma. È stato così?»
«L’ho ricevuta nel 1983 quando non la cercavo e non c’era la rincorsa che c’è ora. Quando me l’hanno tolta nel 2016 non mi ha certo fatto piacere ma è un riconoscimento che ti serve come promozione del marchio per la notorietà. Io ad esempio posso dire che il numero di coperti fatti nel 2019 è stato il più alto della storia».

«È corretto dire che la rivoluzione più grande in cucina è stata l’ingresso delle telecamere della tv?»
«Ha rivoluzionato soprattutto il cliente. Ci sono persone che dicono di “conoscere Cracco o Cannavacciuolo” perché li hanno visti su Sky ma non sono mai andati nei loro ristoranti e forse mai ci andranno perché pensano che sia da pazzi spendere 200 euro per un pasto. E se lo pensano è giusto che non ci vadano. Però quelli che vedono in tv sono attori che recitano una parte: il Cracco che urla e lancia i piatti sta facendo una parte. Lo conosco di persona, da anni, ed è una persona cordiale, elegante, gentilissima».

«Ha fatto danni la tv?»
«Soprattutto tra i giovani che iniziano questo lavoro. Sono aumentati gli ingressi ai corsi di cucina negli istituti alberghieri ma le statistiche nazionali dicono che solo una piccola percentuale di chi esce poi continua in quel settore. Fare il cuoco adesso è una professione con un fascino che un tempo era riservato al calciatore: tutti vogliono essere Maradona, ma quello era unico».

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