L’Ottocento tra allegoria, melodramma e l’assenza di tante donne del Risorgimento

Visita alla mostra ai musei di San Domenico di Forlì dedicata all’arte italiana, tra Hayez e Segantini

Ruth Hayez

La Ruth di Hayez

Credo che la Ruth di Hayez che accoglie il visitatore alla mostra dei musei di San Domenico di Forlì – scelta non a caso come immagine guida dell’esposizione Ottocento. L’arte dell’Italia tra Hayez e Segantini – eserciti sul pubblico un fascino grazie alla sensualità discreta del nudo parziale e alla grande capacità pittorica dell’artista. A differenza dagli altri dipinti storici in mostra per cui Hayez è più noto, Ruth e Tamar di Giuda presentano una più forte idealizzazione nella loro collocazione in uno spazio senza tempo.

La concentrazione su un femminile docile e devoto ai legami coniugali è tema dell’Italia del tempo, e forse non è un caso che poco più tardi, alla fine degli anni ’50, anche Victor Hugo si sia appassionato alle vicende di Ruth trasfigurando la sua storia in un poema. Hayez aveva realizzato i due dipinti in totale sintonia con la sensibilità romantica ma senza condividere con i colleghi francesi l’apertura innovativa al realismo. La storia dell’Italia marca una differenza da quella di Francia: il campione del Romanticismo italiano non poteva che raccontare per allusioni la storia contemporanea se non utilizzando l’allegoria. Occorre una profonda conoscenza del Medioevo – altro leitmotiv del Romanticismo – per capire i collegamenti all’attualità: il Prete Orlando da Parma difeso da Arrigo VII o la Riconciliazione di Ottone con la madre, dipinti fra il 1857 e il ’58, delineano le difficoltà incontrate dai sostenitori dell’unità italiana a causa di papa Pio IX. Si tratta di dipinti più interessanti per il significato che per i risultati estetici, meno convincenti che in altri casi, nonostante la composizione sia sempre curatissima e ricca di citazioni dalla grande tradizione rinascimentale italiana.

Il modello di pittura di storia di Hayez, l’artista preferito da Mazzini, passerà poi alle nuove generazioni ma da sostegno ai grandi ideali di un processo politico in corso passa a coinvolgere altri immaginari più inclini al melodramma. C’è chi, come Giovanni Muzzioli e Giuseppe Barbaglia, riprende la storia romana infarcendola di puro esotismo e sensualità spicciola riecheggiando il gusto Pompier in voga a Parigi; chi invece – ed è il caso di Lodovico Pogliaghi – rimane attratto dal passato senza rendersi conto che le corde sentimentali impiegate nei propri dipinti sono ormai superate dal realismo e dalle nuove sperimentazioni pittoriche.

La celebrazione delle virtù e del vizio così come la necessità di ricostruire gli eventi fondativi del paese dopo l’unità sono i motori dell’arte italiana nella seconda metà dell’Ottocento. La storia antica presenta un catalogo di exempla positivi e negativi da cui trarre insegnamento per le nuove generazioni ma tutta la serie di opere che inneggiano all’eroismo, alle virtù militari, al sacrificio faticano a dialogare col presente, non tanto per gli ideali dell’epoca che incarnano, storicamente riconoscibili, ma per le continue scivolate nel moralismo borghese e in un noioso sentimentalismo teatrale. Gli unici pezzi che reggono la sensibilità di oggi rimangono quelli dei pittori più impegnati, almeno nel senso artistico del termine: lo Staffato di Fattori e le Cucitrici di camicie rosse di Borrani riescono a trasmettere la partecipazione degli autori alle loro narrazioni scavalcando la distanza temporale.

72 Signorini L'Alzaia

L’Alzaia di Signorini

Il melodramma e il bozzettismo tematico sono i nemici più difficili da combattere per l’Italia di questa epoca in grado di depotenziare le analisi più sincere della difficile realtà sociale postunitaria. Se L’alzaia di Signorini mantiene una severità epica nel descrivere il duro lavoro dei braccianti toscani nel trasporto delle chiatte e se Vanga e latte di Patini si fa erede del realismo di Millet, sono alcune prove di Patini e di Carena a sfociare in un paternalismo sentimentale poco apprezzabile. Alcuni artisti come Nomellini riescono a congiungere la nuova ricerca pittorica divisionista con la denuncia sociale – gli operai in attesa di essere chiamati al lavoro al porto di Genova nella Diana del lavoro (1893) – mentre altri, come Onofrio Tomaselli e Angiolo Tommasi, riscattano un realismo con i pregi e i limiti del reportage per raccontare la vita dei carusi o degli emigranti italiani di fine secolo.

Le tinte melodrammatiche tendono a scomparire nelle sezioni dedicate al paesaggio italiano e ai rituali della società del tempo: la tradizione del paesaggio ideale è ancora presente in opere come il temporale di Giuseppe Camino (1856) mentre altri dipinti – il Naviglio sotto la neve di Segantini, il Tramonto di Pellizza da Volpedo, la Veduta di Ninfa di Sartorio – risultano aggiornati sul realismo, sulla pittura impressionista o sul Divisionismo.

Sono le due sezioni dedicati ai ritratti a porre dei dubbi su quanto una mostra debba illustrare la percezione che un periodo storico ha di sé o può giocare la carta dell’interpretazione e dello sguardo retrospettivo. I padri fondatori del Risorgimento e dell’unità italiana – da Carlo Alberto a Mazzini, da Garibaldi a Cavour, da Carducci e D’Annunzio a Mascagni e Puccini – campeggiano nella salette a piano terra dando lustro alle figure di artisti, intellettuali e politici che hanno segnato l’Italia del tempo e alle abilità dei loro ritrattisti fra cui il pittore Vittorio Matteo Corcos e lo scultore Vincenzo Gemito. Fra i contemporanei, solo il bel ritratto di Nunzio Nasi – eseguito da Balla nel 1902, l’anno in cui il politico firmava la prima legge di tutela del patrimonio italiano – si trova al piano superiore: è stato posto a simbolo della nuova generazione futurista in contrasto con la fine di un’epoca, rappresentata dalla selezione di opere che ricorda la mostra storica del ritratto organizzata nel 1911 a Firenze. Ojetti intendeva celebrare a Firenze i 50 anni dell’unità italiana, radunando “gli uomini e le donne che hanno fatto la storia d’Italia e d’Europa”.

L’attenzione al femminile stupisce per i tempi e fa ripensare all’attuale mostra forlivese e alla sezione dei ritratti dei fondatori della patria a contrasto con quelle dedicate alla donna e allo spirito della nuova Italia. Qui troviamo madri, pecore e mucche del mondo ideale di Segantini e Pellizza oppure una serie di donne brutte e belle, ricche, sgargianti nelle loro mise ultimo grido precisamente esaltate da Boldini o Corcos. A parte la regina Margherita – simbolo condiviso dell’unità italiana – si distinguono per fama meritata le attrici Eleonora Duse e Lyda Borelli insieme a Franca Florio, attiva negli affari del marito armatore. Di tutte le altre donne presenti, le fonti storiche ricordano solo che avevano ottime frequentazioni, che erano le mogli o le amanti di qualcuno e che partecipavano alla vita mondana. Per rimanere nelle coordinate temporali della mostra e pensando appunto a interrogare la percezione del tempo o a mettere in campo la verità della storia, ci mancano allora molte altre donne: le risorgimentali Cristina Trivulzio di Belgiojoso o Giuseppina Morosini – entrambe ritratte da Hayez –, Costanza d’Azeglio e Rosalia Montmasson, questa ultima partecipe dell’avventura dei Mille e ritratta nel 1885 da Salvatore Grita. Ci chiediamo dove potrebbero stare Anita Garibaldi, Adelaide Bono Cairoli, animatrice di un salotto politico letterario e sostenitrice di giornali e patrioti, e Anna Grassetti Zanardi, a cui proprio Mazzini affidò il compito di riorganizzare le forze repubblicane in Emilia-Romagna, per arrivare ai casi più politicamente avanzati di Anna Maria Mozzoni e della Kuliscioff. L’Ottocento femminile sarebbe stato ben rappresentato da queste figure che qualche volta avevano il tempo di farsi ritrarre, fra un arresto e un libro pubblicato, altre volte in effetti no.

La mostra resterà aperta fino al 16 giugno, da martedì a venerdì dalle 9.30 alle 19, sabato, domenica e giorni festivi dalle 9.30 alle 20 (la biglietteria chiude un’ora prima). Lunedì chiuso. 22 e 29 aprile apertura straordinaria.

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