«Mi auguro che i musei del futuro siano templi storici e non divertimentifici»

Storico dell’arte, soprintendente, ministro, allievo di Roberto Longhi: Antonio Paolucci ha diretto per dieci anni i Musei Vaticani e messo la firma su molti progetti di successo al complesso di San Domenico di Forlì

Museisandomenico

I Musei di San Domenico a Forlì

Storico dell’arte, soprintendente, ministro: Antonio Paolucci è una di quelle figure d’intellettuale che ormai si incontra sempre più di rado. Signorile, acuto e lucido dopo aver veduto il susseguirsi di generazioni e fortune alterne nelle vicende del patrimonio culturale italiano, l’allievo del terribile e geniale Roberto Longhi cesella le parole con una profondità di sguardo che fa venire i brividi e risultare inadeguati parecchi livelli di discussione a cui siamo spesso malauguratamente abituati.

Oltre al record di presenze registrato durante i dieci anni alla direzione ai Musei Vaticani (dal 2007 al 2016), la firma nelle più prestigiose pubblicazioni italiane ad argomento culturale e artistico – quello sfogo di “libertà dello storico dell’arte” ritagliato dai pressanti impegni di chi ha avuto l’onore e l’onere di gestire musei con indotti complessivi annui di milioni di visitatori – cittadinanze onorarie e medaglie d’oro, nel suo palmarés fa capolino una rosa di applauditi progetti che porta la sua firma (a partire dalla mostra su Marco Palmezzano) ai Musei di San Domenico di Forlì. Un suo punto di vista proprio sulla situazione forlivese, partendo dalla mostra Ottocento, ci ha portato a quella emiliano romagnola, fino a quella della Penisola.

Paolucci1Professor Paolucci, la sua lunga carriera ha toccato tanti aspetti del fare cultura in Italia: tra lo storico dell’arte, il ministro, il soprintendente, il direttore, in quale ruolo si è sentito più realizzato e determinante?
«Sono stato ministro pochi mesi, direttore dei Musei Vaticani per tanti anni, ma soprattutto mi sono sentito nei miei panni come soprintendente, come uomo dei mestieri artistici. Il restauro, il recupero, la catalogazione, letteralmente il “poter mettere le mani” nel patrimonio artistico sono le attività in cui mi sento più realizzato».
Cosa ne pensa invece delle altre figure che operano oggi nel mondo dell’arte? Secondo lei oggi esistono intellettuali paragonabili ad esempio a Roberto Longhi, il suo maestro?
«Nel 1964 fui il suo ultimo laureato. Longhi era un vero incantatore di serpenti, seduttivo e pericoloso. Se si usciva vivi da lui, poi non si aveva più paura di nulla. Il suo approccio tecnico all’opera d’arte come prodotto storico concretizzato, ma anche come fatto di poesia, tale da poter essere tradotto con le parole giuste, è stato un grande insegnamento per noi. Oggi non vedo purtroppo figure simili in Italia, quello fu un periodo speciale».
E in merito al panorama regionale, che opinione ha? Oggi ci si riempie la bocca con l’espressione “grande mostra”: quali caratteristiche deve avere a suo parere un progetto che funziona e quali sono le realtà che, nel presente degli ultimi vent’anni, considera più felici in Emilia-Romagna?
«In una città come quella di Ferrara vedo la qualità dei progetti. Ferrara, così come Firenze, produce progetti dal carattere non preconfezionato, con una rigorosa e originale ricerca scientifica a monte, chiamando ogni volta i migliori specialisti che si sono dedicati ai temi da affrontare. A mio parere è questa la strada giusta da perseguire, ed è la stessa che abbiamo seguito a Forlì».
Ci racconta da vicino il lavoro ai Musei di San Domenico? Un suo punto di vista sull’ultima mostra, Ottocento, ma anche sui progetti del passato?
«Sono il custode storico della istituzione forlivese e sono stato anche curatore. I progetti realizzati a Forlì costituiscono una sorta di periplo della modernità: abbiamo visto Cagnacci, Piero della Francesca e il suo riemergere come mito per gli artisti del Novecento. Ma il nucleo fondamentale parte da Lega e arriva fino alle mostre Liberty, Art Déco – Gli anni ruggenti in Italia. Questa ultima mostra, Ottocento, in un certo senso precede e riassorbe tutte le altre. Parla di arte al tempo in cui il Paese voleva darsi un’identità, parla di persuasione. Manzoni nell’Adelchi diceva: “un volgo disperso che nome non ha”. Ci sono i miti, l’orgoglio civico, le battaglie, il lavoro, le diverse classi sociali che cercano emancipazione, la fondazione di una coscienza unitaria. Insieme a Wildt e alle mostre che ho menzionato prima, con questo ultimo progetto Forlì costituisce un centro unico sulla modernità italiana».
Come vede invece le eccellenze del futuro? Come saranno i musei tra cinquant’anni secondo lei?
«Da buon reazionario mi auguro che possano assomigliare al passato che abbiamo conosciuto, quello dell’identità patriottica. Il visitatore deve emozionarsi, commuoversi, sentirsi cittadino di una Patria. Dopo la Rivoluzione francese, il Louvre viene aperto con questo obiettivo: trasformare le plebi in cittadini, essere un grande tempio storico, non un divertimentificio che tradisce la sua vera natura».

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