Fois: «In letteratura nessun luogo è un non-luogo»

L’autore nuorese torna al noir con il suo ultimo romanzo Del dirsi addio e sarà ospite alla rassegna “Cervia ama il libro”

Fois

L’autore

Scrittore sardo da tempo trapiantato a Bologna Marcello Fois, ex professore di italiano innamorato di Manzoni e Deledda, dopo la serie di romanzi dedicati alla saga sulla famiglia sarda dei Chironi, torna alla sua prima passione, il noir, raccontando il mistero di un bimbo di cui si perdono le tracce sulle alture di una Bolzano bianca di neve. Abbiamo intervistato Marcello Fois che sarà ospite il 9 agosto de “La spiaggia ama il libro” a Cervia in Piazzale Maffei alle 21.30.
Con Del dirsi addio sembra allontanarsi dai suoi romanzi precedenti, lascia l’assolata Sardegna per l’innevata Bolzano, lascia le tematiche affettive per entrare, o meglio tornare, nel noir. Eppure anche qui alla fine ritroviamo i conflitti familiari, il dolore e i silenzi. In che modo si è riavvicinato al noir e come se ne è servito per mettergli dentro il suo modo di fare letteratura?
«Parte della mia risposta è contenuta nella sua domanda, Del dirsi addio è un ritorno nel senso più etimologico del termine. È cioè un riprendere un antico spazio, ma con la certezza di non essere più gli stessi di quando l’avevamo lasciato. Undici anni di saga Chironi mi hanno molto segnato perché quando si vive così a lungo in un luogo che ci si illude di aver inventato, si finisce per dover ammettere che quel luogo esisteva da prima e ti ha formato. Da Memoria del vuoto in poi mi sono detto che potevo esiliare dalla “letteratura di genere”, ma alla fine ho sentito una grande nostalgia della libertà di disobbedire che quella letteratura concede e sono ritornato al noir. Solo che non ero più lo stesso. Una genetica più sottile si è imposta nella mia scrittura. Con questo romanzo ho sperimentato connessioni inusuali per un poliziesco. Credo che in fondo ho sempre cercato la fusione tra romanzo eminentemente “letterario” e romanzo “di genere”».

I suoi romanzi, e questo in particolare, sembrano avere trame molto studiate, è così o scrive di getto? Ha avuto riferimenti letterari che l’hanno condotta ad addentrarsi in questo genere con commissari e misteri irrisolti?

 

«L’andarsene dei sardi
non è un congedarsi
Noi addio alla nostra terra
non riusciamo mai
a dirlo veramente»

«Scrivo apparentemente di getto. O meglio dico a me stesso che sto scrivendo di getto, ma non credo sia sempre vero. Di getto avvengono certe svolte all’interno di una storia a cui penso ossessivamente per molti mesi prima di scrivere anche una sola riga. Faccio, per così dire una specie di training in modo che quanto studio minuziosamente sembri scritto di getto. A volte succede, a volte no. Scrittura e narrazione non sempre convergono: grandissimi scrittori non sempre sono narratori abili e grandissimi narratori qualche volta sono scrittori mediocri. Io, limitatamente a quello che potremmo definire romanzo di genere, preferisco quelli che esercitano al meglio sia scrittura che narrazione: Durrenmatt, Sciascia, Stevenson, Buzzati, Gadda, Simenon, Glauser, Caine… e altri».
Descrivendo il luogo turistico in cui ambienta la storia dice che il protagonista non riusciva a smettere di sorprendersi della “assenza di avvenimenti” di quella città che era una specie di “immenso outlet”. Crede che le località turistiche italiane risentano di uno svuotamento ambientale e tendano a risultare letterariamente dei non-luoghi?

Foislibro

La copertina del libro

«Nessun luogo è un non-luogo per la letteratura. Lo scrittore non fa sociologia o antropologia: lo scrittore racconta e raccontare un non-luogo può essere altrettanto appassionante che raccontare un luogo. Dentro a questi non-luoghi si aggirano persone e si conducono vite incredibilmente interessanti anche se ciò non appare con evidenza. La Tv, la pubblicità ci hanno convinto che esistano standard di “vita vera” assai distanti dalla vita vera. Chi crede a questi messaggi vive la propria esistenza come uno strappo. In questi non-luoghi si tenta di ricucire questo strappo. Ne consegue un’umanità davvero letteraria».
Recentemente ha debuttato con Quasi Grazia un lavoro teatrale ispirato a Grazia Deledda e interpretato da Michela Murgia, come è stato scrivere per il teatro?
«Non è esatto dire che ho scritto per il teatro: il tentativo era di trattare come vivente, pensante, un personaggio che all’interno di un ulteriore saggio sarebbe comunque apparso definitivamente scomparso. Forse Quasi grazia si potrebbe definire un romanzo in forma teatrale, o una pièce narrativa non so. Sta di fatto che mi piaceva l’idea di fare in modo che le tappe fondamentali della vita di Grazia Deledda fossero rivissute piuttosto che semplicemente trasmesse. Fare interpretare tutto ciò da Michela Murgia è un’idea che mi è venuta in corso d’opera. Quanto più mi rendevo conto che parlando della Deledda stavo parlando di sistemi più universali inerenti al rapporto tra uno scrittore e il suo territorio, la sua lingua, il suo genere (essere donna e scrittrice quando l’ha deciso Deledda non era altrettanto facile che oggi). Da qui l’idea che semmai in qualche modo qualcuno fosse stato così pazzo da mettere in scena Quasi Grazia avrebbe dovuto interpretarla un’altra scrittrice, sarda. Quel qualcuno c’è stato, si chiama Massimo Mancini che, per lo Stabile della Sardegna, ha deciso di finanziare la produzione teatrale del testo con la Murgia come protagonista e Veronica Cruciani come regista».
Come mai secondo lei Grazia Deledda, pur essendo una dei pochi autori italiani ad aver ricevuto il Premio Nobel, è un personaggio letterario di cui si parla così poco e a scuola spesso non è nemmeno citata?
«Come mai le donne scrittrici italiane sono così poche nel canone del Ministero della Pubblica Istruzione? Perché da quindici anni una donna non vince il Premio Strega? Deledda è fra le scrittrici più famose del mondo, giudicarla dall’osservatorio italiano rivela la nostra provincialità.
Anche lei, come molti scrittori sardi è dovuta emigrare sul “continente” per far sentire la sua voce di autore, è un destino irrimediabilmente comune?
«Non così comune, conosco grandissimi scrittori che hanno agito in Sardegna. Anche perché l’andarsene dei sardi non è esattamente un congedarsi. Noi addio alla nostra terra non riusciamo mai a dirlo veramente».

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