Robecchi: «La narrativa è uno spazio di libertà»

Firma storica della satira in Italia, sarà a Ravenna con il suo giallo Torto marcio, mix di critica e suspense

Ospite a Scrittura Festival a Ravenna (in piazza Unità d’Italia il 28 maggio alle 18.30), Alessandro Robecchi è una firma storica della satira in Italia e da qualche anno anche un autore di narrativa. La sua serie di gialli editi da Sellerio è arrivata al quarto romanzo, Torto marcio, uscito nel 2017, con i protagonisti che avevamo conosciuto dal 2014 nel primo Questa non è una canzone d’amore.

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Alessandro Robecchi

Scrivi programmi tv, articoli di giornali, saggi, rubriche. Non ti bastava? Perché la narrativa?
«Verrebbe da dire: e perché no? Il mio mestiere è scrivere, mi piace provare diversi registri, linguaggi, forme. Ho fatto i giornali, la radio, la televisione. Ogni mezzo ha la sua specificità, il suo ritmo, direi. Ho scritto il primo romanzo perché avevo una storia in testa, e lì ho scoperto che la narrativa è davvero uno spazio di libertà: di tutte le scritture è quella che ha meno mediazioni tra quello che vuoi dire e quello che i lettori avranno in mano, non hai tempi, né misure tassative, meno condizionamenti. E poi, cosa sarebbero queste categorie? Tutti ricordiamo Flaiano per i suoi aforismi e i suoi pastiches saggistici, ma scrisse anche un grande romanzo (Tempo di uccidere). Beppe Viola scriveva di sport per la Rai, ma anche le canzoni di Jannacci, racconti e storie, Rossini scriveva opere buffe ma anche la Pétite Messe Solennelle. Fallo, divertiti e fallo bene».
Tempo fa si sentiva spesso dire che il “giallo” è il nuovo “romanzo sociale”. I tuoi romanzi sono in effetti spaccati (anche) sociali, oltreché umani. Stai scrivendo il nuovo romanzo sociale?
«Credo che la definizione del giallo come nuovo romanzo sociale sia di Petros Markaris, ma credo che ormai concordino un po’ tutti. Io vorrei allargare il concetto. Tutto quello che si scrive è in qualche modo “sociale”, dal romanzo alla lista della spesa. Se io scrivo di un delitto, delle sue vittime, di chi lo compie, di chi mette insieme i fili per risolvere il mistero, il luogo e il tempo in cui tutto accade non è estraneo alla vicenda, ne spiega i contorni, le motivazioni … Però non voglio sottrarmi alla domanda: forse se oggi il giallo appare “romanzo sociale” è perché spesso la narrativa non gialla lo è meno, molto “privata”, autoriferita».
Nei tuoi romanzi è molto forte l’elemento della “classe”. Il tuo protagonista sembra quasi in imbarazzo dalla ricchezza che gli è toccata grazie al lavoro di autore di discutibili programmi televisivi e poi però vi si adagia comodamente mentre la sua governante dell’est gli attacca volantini per Medjougorie in giro per casa, con effetti peraltro esilaranti. Ma la sinistra ormai è prerogativa di intellettuali che mangiano avocado e ascoltano Bob Dylan?
«Se posso dire una cosa démodé, le classi sociali esistono. Ci sono gli ultraricchi, i ricchi, una classe media sempre più compressa e (tenetevi forte) i proletari, più infinite tonalità di tutto questo. Carlo Monterossi non ha alcuna sfumatura ideologica, ma ha un suo spiccato senso della giustizia. Ecco, io credo che se si ha un minimo senso di giustizia non si può ignorare la “questione di classe”, non si può fingere di non sapere che c’è chi ha troppo e chi troppo poco. La questione sulla sinistra garantita e benestante non mi entusiasma, credo che ormai si chiami sinistra per inerzia, per convenzione. Per me è “sinistra” chi lavora per ridurre le diseguaglianze e risolvere le ingiustizie sociali. Il resto è fuffa e opportunismo. Quanto a Dylan non so che dire: quelli “di sinistra” ascoltano Malher? Boh… Io spero di sì, spero che lo ascoltino tutti, anzi, così come per Dylan, o Shakespeare, o Majakovskij: ascoltare i poeti non fa mai male, rende liberi. Loro rimarranno, la caricatura di sinistra di cui parli tu, vedremo».
Robecchi Torto MarcioRispetto al giallo classico i tuoi romanzi hanno altre due caratteristiche: i personaggi seriali e il rapporto molto stretto con Milano. Avevi in mente qualche modello in particolare? Quanto ha pesato Milano nella genesi dei tuoi romanzi?
«No, non avevo in mente nessun modello, non sapevo che dopo il primo libro sarebbe nata una serie, ma Monterossi e i suoi co-protagonisti mi sono sembrati perfetti per dire quello che volevo dire e quindi ho scritto altre storie. In Di rabbia e di vento e in Torto marcio il combinato dei personaggi e della storia mi ha permesso di riflettere su due questioni: la rabbia non è più collettiva, è diventata un rancore privato. E poi la giustizia: è ancora possibile? Quanto è lontana la legge dalla giustizia? E quanto è lontana la giustizia amministrata ogni giorno dal nostro senso di giustizia, quello umano e profondo, se ancora ce l’abbiamo? Milano fa da sfondo a tutto questo, ma ne è anche parte in causa. La percezione che se ne ha nel resto del Paese è monodimensionale: moda, design, alti redditi, bei negozi… Invece è molto, molto altro. La questione degli alloggi popolari sfitti che vengono occupati che c’è in Torto marcio non è inventata: a Milano ci sono migliaia di alloggi popolari vuoti e sigillati, e gente che dorme in macchina o per la strada. E intanto ci si bea del “modello per il Paese” e della retorica sulla “capitale morale”, ci si vanta degli appartamenti da 15.000 euro al metro quadro nei grattacieli che il mondo ci invidia. Ecco, non beviamoci solo la narrazione ufficiale della luminosa capitale morale».
Quanto il nostro sguardo sul mondo può cambiare in base alla città in cui viviamo? Roma, Milano e Napoli sono tre Italie diverse?
«Ma ogni Italia è diversa, ogni città ha la sua anima e quindi il suo sguardo, per non dire la provincia… Io amo certi esilaranti cinismi romani, e al tempo stesso so riconoscere le sfumature calviniste milanesi. I luoghi comuni sono dietro l’angolo, sempre in agguato, però se sono “comuni” qualcosa di vero avranno. Siamo un paese con tanti popoli, più quelli che arrivano, io credo che questa sia una ricchezza».
Nonostante cadaveri, misteri e ingiustizie di vario genere, nei tuoi libri si ride continuamente, a volte si ride amaro, a volte di gusto. Ma esiste secondo te il rischio che l’ironia si trasformi in una sorta di sguardo disincantato che scherma la realtà e permette di mantenere una distanza rispetto a ciò che magari ci dovrebbe indignare?
«Maneggio la satira da quasi trent’anni e rifuggo come la peste la discussione teorica sull’argomento… Si ride perché nella vita, per fortuna, si ride anche. Ma vorrei dire che ridere può essere eversivo. Si ride di quello che ci pare assurdo, anzi, scrivendo, si racconta l’assurdo che ci circonda, e mostrarne il ridicolo è anche una forma di lotta, di denuncia. Non vedo contraddizione tra ironia e indignazione, tanto è vero che i regimi puniscono l’indignazione ma anche l’ironia, il Kgb batteva i bar e i mercati e arrestava chi raccontava barzellette sul regime, in Turchia puoi andare in galera per una vignetta… L’ironia è una buona arma, è uno spirito critico condensato».
Scrivevi sul Manifesto, ora su Il fatto quotidiano, la prima domanda è: sei diventato grillino?
«(Ride, ndr) Ero libero sul Manifesto, sono libero al Fatto Quotidiano. Totalmente. Quanto alle appartenenze politiche dirò questo: oggi abbiamo un tripolarismo perfetto, tra l’altro con tre poli con evidenti elementi di destra. Io rivendico il mio essere “equilontano”, non ascrivibile a questo o a quello. Poi siamo in una fase in cui se dici no a Renzi sei grillino, se dici no a Grillo sei renziano… divertente, a volte irritante, ma non è un problema mio, so che essere liberi espone alla critiche di chi lo è un po’ meno».
La seconda domanda è: in epoca di social, post-verità, disintermediazione, scontri continui tra stampa e politica o stampa e comunità scientifica (per esempio sul tema vaccini), per raccontare il reale ci resta forse solo la finzione della narrativa?
«Si racconta il mondo come si sa e come si può, la narrativa, la letteratura, giocano la loro partita. Certo, sulla Roma fascista ci ha detto di più e meglio il Gadda del Pasticciaccio che molti saggi, e un articolo onesto può dire cose sensate, può farlo anche una canzone… Credo che oggi, la narrativa sia ancora un grande territorio di libertà, cosa che si può dire assai meno dei media. Ma il sogno di una disintermediazione totale non regge: avremo sempre bisogno di qualcuno che traduce in parole quello che pensa. Rubo una frase a Gabriel Garcia Marquez: “Il dovere rivoluzionario di uno scrittore è di scrivere bene”».

Il programma completo di Scrittura Festival

NATURASI BILLB SEMI CECI FAGIOLI 19 – 28 04 24
INCANTO BILLB 19 04 – 01 05 24
CONAD INSTAGRAM BILLB 01 01 – 31 12 24
CENTRALE LATTE CESENA BILLB LATTE 25 04 – 01 05 24