Passione Americana: «Ci sono da noi un Franzen o un Foster Wallace?»

Parla Luca Briasco, editor Minimum Fax (ex Einaudi), ospite allo Scrittura festival

Briasco

Luca Briasco e la copertina del suo libro “Americana”

Per molti anni editor della narrativa straniera per Einaudi Stile Libero, Luca Briasco, oggi passato a Minimum Fax, è uno dei maggiori esperti in Italia di narrativa americana, con particolare attenzione al romanzo contemporaneo.

Nel suo libro Americana (minimum fax) ripercorre le tracce degli scrittori che hanno esplorato i territori del «grande romanzo americano».

Briasco sarà ospite di Scrittura festival a Lugo il 10 giugno alle 21 in piazza del Pavaglione (a questo link il programma completo).

Che momento sta attraversando la letteratura americana?
«È un momento interlocutorio, è una fase di cambiamento. Non ci sono più correnti letterarie, ma gruppi di autori. È un momento di mediazione tra il post-moderno e la narrativa più legata al realismo e al romanzo saga come Franzen, Chabon e Safran Foer. Ci sono voci nuove da seguire, soprattutto femminili. Sono nuove autrici che riescono a essere meno canoniche dei loro colleghi maschi, e che hanno più voglia di sperimentare come Lauren Groff (ospitata nella anteprima di ScrittuRa a novembre ndr) e Emma Cline. Credo inoltre che questa nuova presidenza degli Usa porterà dei cambiamenti anche a livello letterario».
Intende che dobbiamo aspettarci una reazione da parte degli scrittori alle posizioni di Trump?
«Beh, già i premi letterari conferiti quest’anno hanno dato un segnale. Infatti tutti e tre i principali riconoscenti sono andati ad autori afroamericani. Paul Beatty ha vinto sia il Nation Book Award che il Man Booker Prize e Colson Whitehead ha vinto il Pulizer. Entrambi nei loro romanzi parlano di schiavismo e premiarli credo sia stato un modo anche per dare un segnale sociale e politico».
Potrebbe esserci più impegno anche in direzione di un neo-femminismo?
«Sicuramente c’è un ritorno di attenzione anche su questi temi con voci femminili molto forti».
Che influenza ha sulla letteratura americana il grande successo delle serie televisive, visto anche che molti autori sono anche sceneggiatori?
«Le serie tv costringono il romanzo alla prova della narratività. La serie televisiva è la forma che più si avvicina a una certa idea di romanzo e si può dire che risponde oggi a quei criteri che erano dei romanzi pubblicati a episodi nell’800. È ovvio che questo provoca un forte ritorno di attenzione alla narratività intesa come trama e sviluppo del personaggio in opposizione a quello che è stato il romanzo sperimentale. Però mi chiedo: è il romanzo a essere influenzato dalle serie tv o il contrario? Perché già in romanzi come quelli di Franzen o Chabon c’era questo tipo di forma. Quindi direi che è un’influenza reciproca. Non è un caso che molti scrittori passino alla televisione e poi tornino alla letteratura attingendo a quella esperienza. Questo fenomeno si accentuerà ulteriormente in futuro».
Gli Stati Uniti sono anche il centro della cultura capitalistica e dell’idea contemporanea di marketing, quanto influisce questo sulla letteratura?
«Sto traducendo in questo periodo un saggio di Saul Bellow che dice che un tempo c’erano le capitali culturali che accoglievano gli scrittori in un ambiente stimolante, oggi la capitale culturale è New York, ma non è in realtà una capitale della cultura, ma dell’industria culturale. Il problema è che la letteratura americana che ci arriva è soprattutto quella newyorkese e questo crea un’idea distorta dell’america che ha invece sfaccettature nascoste. Franzen, Safran Foer parlano di un certo tipo di realtà, quella sofisticata, incentrata sulle dinamiche familiari e tradizionale nell’impianto e su questo si è concentrato anche il marketing. Credo però che, a parte casi come Cinquanta sfumature di grigio, il marketing abbia sostenuto autori che poi si sono dimostrati validi. Cormac McCarty era poco conosciuto prima del massiccio lancio de La strada e del film dei fratelli Coen su Non è un paese per vecchi, ma era veramente un grande autore e lo era già prima, quando era poco conosciuto».
Con Einaudi hai portato in Italia libri di molti dei più grandi autori americani, ce n’è uno a cui ti senti particolarmente legato?
«Direi Il potere del cane di Don Winslow. Un gran libro che in Italia non era stato tradotto perché considerato troppo crudo e violento, ed era stato bollato come “romanzo di genere”. Invece era un grande romanzo che raccontava la difficile vita al confine tra Stati Uniti e Messico, che oggi è al centro del dibattito. Decisi di prenderlo e alla fine ha venduto oltre cento mila copie».
Ora sei passato a MinimumFax famosa negli anni per aver “scovato” alcuni autori che poi sono diventati “mostri sacri” come Carver. Ora che devi tornare un esploratore, dove ti spingerai per scoprire novità?
«Ho già in cantiere l’uscita di cinque autori mai tradotti in Italia. Sono autori che raccontano l’America meno conosciuta, apparentemente più marginale un po’ come Kent Haruf, che infatti ha suscitato grandissimo interesse. Credo sia lì che ci sono le cose più interessanti adesso. A novembre uscirà il primo, uno scrittore del Kentucky autore di un grande libro di racconti, si chiama Chris Offutt».
Ci sono state polemiche recentemente da parte di chi sostiene che in Italia siamo troppo “esterofili”, condividi questo punto di vista? O credi che questa passione per la letteratura americana sia giustificata?
«Ho seguito queste polemiche, e credo ci siano da fare due valutazioni. Da una parte è vero che arrivano troppi autori anglofoni. In Italia il 75% dei libri stranieri vengono tradotti dall’inglese, mentre è ovvio che ci siano libri importanti anche da altri paesi e che fanno più fatica ad arrivare. Ci sono anche molti thriller brutti, che se fossero scritti da autori italiani probabilmente non sarebbero nemmeno pubblicati, ma visto che sono americani sembra ovvio che siano scritti da professionisti, anche quando non è così. Dall’altra parte bisognerebbe però ammettere che i libri di qualità americani raggiungono vette che al momento non si raggiungono in Italia. Ci sono da noi un Franzen, un Chabon o un Foster Wallace? No. Senza offesa per nessuno, ma non ci sono. Bisognerebbe prendere spunto da questi grandi – non imitandoli ovviamente – per imparare a narrare la nostra realtà con quel respiro e quella forza. Quando arrivarono in Italia i libri di Hemingway e Faulkner negli anni ’40 fecero emergere determinate cose anche nella narrativa italiana. Invece che fare delle polemiche bisognerebbe leggere questi libri con il giusto spirito».

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