Amélie Nothomb: «Il cliché è marmo, scrivere è scultura, creare è togliere»

L’autrice belga per la prima volta a Ravenna. «Quando scrivo sono come un serial killer…»

Amélie Nothomb

Amélie Nothomb

Amélie Nothomb è una donna di poche parole. Scrittrice di culto da milioni di copie vendute in tutto il mondo, vive senza alcuna tecnologia. Non ha cellulare, non ha computer. Farle un’intervista a distanza non è cosa semplice. Le domande vengono stampate, consegnatele a mano, e le risposte arrivano scritte a penna, con una calligrafia elegante e spigolosa.

Non sono molti gli autori che usano scrivere i loro libri a mano, lettera dopo lettera, come gli antichi amanuensi, ma anche come ognuno di noi ha imparato a fare a scuola. Con pazienza. Sulla pagina bianca ogni errore è un segno indelebile, ogni correzione una cicatrice. Forse in questo è debitrice al Giappone, dove è cresciuta, in cui la calligrafia è un’arte al pari della pittura.

Con un tratto di penna prendono vita i romanzi di Amélie Nothomb e allo stesso modo ha preso il via la nostra conversazione, che anticipa la sua presenza – per la prima volta a Ravenna – per l’anteprima di Scrittura festival/Il Tempo Ritrovato il 28 febbraio alle 10 a Palazzo dei Congressi (la sala della Biblioteca Classense pensata inizialmente si è rivelata non abbastanza capiente viste le moltissime lettere che abbiamo ricevuto di persone che verranno a sentirla da diverse città d’Italia). Così abbiamo iniziato il dialogo che proseguiremo dal vivo il 28, partendo dal suo ultimo romanzo appena uscito, I nomi epiceni, edito come sempre da Voland e tradotto da Isabella Mattazzi.

Nei suoi romanzi i dialoghi hanno un peso molto rilevante. Sono asciutti e diretti. Cosa sono per lei i dialoghi?
«È il momento del combattimento. Costruisco i miei dialoghi come una partita a scacchi».
Che rapporto hanno le sue storie non autobiografiche con la realtà?
«Sono ancora più reali dei miei racconti autobiografici: raccontano la mia vita inconfessabile!».
Da sempre si tiene a distanza dalla tecnologia, senza computer e cellulare. Negli ultimi anni la società si è completamente assuefatta alla tecnologia. Perché ha deciso di tenersene fuori?
«Per indifferenza».
Che difficoltà e che vantaggi ha la sua scelta?
«Difficoltà: quando perdo il treno. Vantaggi: tutto il resto».
I titoli dei suoi romanzi sono sempre molto evocativi. I nomi epiceni, detti più comunemente nomi misti, possono essere sia maschili che femminili, a cosa si riferisce questo titolo?
«A una doppia vendetta».
Il rapporto tra padre e figlia che descrive nel libro è molto duro e privo di pathos. Anche in questo voleva sfidare qualsiasi forma di cliché?
«Sì, la figlia reagisce non per il dolore ma per l’odio o il desiderio di uccidere».
L’amore in questo suo libro, come nei precedenti, è al di fuori del concetto tradizionale di “romanticismo”. Crede che il romanticismo sia una menzogna?
«Il romanticismo non funziona».
C’è molta ironia anche nel parlare del “matrimonio”, il più tradizionale e raccontato dei sacramenti, visto dai suoi personaggi come “soluzione a” o “causa dei” propri problemi. Cosa ne pensa?
«Il matrimonio è la migliore soluzione per risolvere i problemi che non si avrebbero se non si fosse sposati».
I luoghi comuni, che nei suoi libri sovverte, sono però essenziali per suscitare l’ironia verso la normalità dissimulata in cui viviamo. Cosa sono per un’autrice come lei i luoghi comuni? Un nemico o un’opportunità narrativa?
«Il cliché è il marmo. Quello che scrivo, la scultura: creare è togliere!».
Nostalgia in occidente è malinconia, in Giappone è la felicità di rivivere il passato, come raccontava nel suo precedente romanzo: che rapporto ha con il passato?
«Cerco di diventare una nostalgica giapponese. È molto difficile. Di natura, sono più fitzegeraldiana».
Pubblica un romanzo ogni anno, come è cambiato il suo modo di scrivere rispetto agli esordi?
«Si è notevolmente ripulito».
In questi anni ha trovato una “modalità di lavoro” che si ripete?
«Sì. Sono come una serial killer, ho un modus operandi che si ripete».
Che significato hanno per lei queste routine?
«Si tratta di essere il più efficaci possibili, come Bach».
Da dove inizia una nuova storia?
«Dal distruggerla».
Per sua scelta i suoi libri escono in Francia sempre a fine agosto, c’è anche un momento dell’anno in cui è più propensa a iniziare la scrittura?
«No. Inizio di continuo».
Quali sono stati i libri più interessanti che ha letto quest’anno?
«Grace di Paul Lynch. Elogio del gatto di Stéphanie Hochet».
Ha passato l’adolescenza in molti paesi: Giappone, Cina, Stati Uniti e Bangladesh. Come ha influito il suo entrare in contatto con modi così diversi di intendere il mondo in una fase di formazione così importante della vita?
«Mi ha reso maniaca della sola cosa stabile della mia vita: la lingua».
Lei è cittadina belga, eppure è arrivata a vivere in Europa quando aveva 17 anni, e ha raccontato di sentirsi estranea e aver avuto difficoltà a reintegrarsi, anche se non aveva difficoltà economiche né linguistiche. Cosa ne pensa dei migranti che giungono in Europa? Come li vede dagli occhi della sua esperienza?
«Li ammiro tantissimo, non so davvero come facciano».
Si considera più europea (luogo dove vive e di cui è originaria), giapponese (luogo dell’infanzia e della formazione), apolide o cittadina del mondo?
«Cittadina del mondo».

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