Quanta cultura nel nostro modo di vedere i colori. La parola a Riccardo Falcinelli

Intervista al visual designer autore del bestseller “Cromorama”, ospite a Ravenna e Rimini

«Rosa! Marge, non posso indossare una camicia rosa al lavoro, tutti indossano camicie bianche. Non sono abbastanza popolare per essere diverso!», diceva Homer alla moglie in un episodio dei Simpson. I colori sono simboli, segni e valori per la nostra cultura.

Ne parla Riccardo Falcinelli nel suo Cromo­rama (Einaudi) che presenterà alla rassegna “Il Tempo Ritrovato”, il 17 gennaio alle 18 alla Sala Melandri di Casa D’Attorre di Ra­venna, e il 26 gennaio a Rimini, alla Primo Piano Art Gallery (via Giuseppe Gari­baldi 20) alle 18, in un evento quest’ultimo organizzato dall’associazione culturale Ticonzero in collaborazione con Noroof e Primo Piano Art Gallery.

Falcinelli è uno dei piú apprezzati visual designer sulla scena della grafica italiana, che ha contribuito a innovare progettando libri e collane per diversi editori tra cui Einaudi e minimum fax. Insegna Psicologia della percezione presso la facoltà di Design Isia di Roma.

Ti aspettavi un successo così per un libro di design?
«Lo scorso libro, che era un’introduzione al design, aveva venduto bene, ma nel tempo, non così velocemente. Mi ha abbastanza spiazzato…»
Oltre a una attenzione al tuo lavoro, credi che l’argomento del colore abbia suscitato un interesse particolare?
«Il pubblico sta cambiando. Ci sono giovani con un interesse per ragionamenti sulle immagini un po’ diversi dal solito. Lo dimostrano anche i numeri delle scuole di design e delle accademie, i cui iscritti sono molto cresciuti negli ultimi anni».

Riccardo Falcinelli

Riccardo Falcinelli

Quanto i colori sono un fattore sensoriale e quanto invece culturale?
«I colori sono una questione culturale. Quando diciamo che un colore va di moda o che significa una cosa, che un colore sta bene addosso a una persona o per un arredamento, stiamo facendo una valutazione culturale: legata alle convenzioni. Se leggiamo le cose che sono state scritte sul colore negli ultimi cinquecento anni, vediamo che la percezione del colore è cambiata di continuo. L’aspet­to sensoriale però c’è, perché attraverso i sensi costruiamo questi percorsi culturali».
Un rapporto tra colori e emozioni esiste o anche questo è frutto solo della cultura?
«C’è. Le neuroscienze dimostrano che i colori sono la prima cosa che viene elaborata dal nostro cervello, prima ancora delle forme. Che sia una scena di un film o una immagine non cambia, per il no­stro cervello prima c’è il verde e poi c’è la foglia. Questo è importante. Oggi sempre di più il colore è usato, anche nel cinema e nelle serie tv, come elemento emozionale, per coinvolgere il pubblico».
Il libro è frutto di un lungo lavoro di ricerca, c’è stato qualcosa che ti ha stupito tra le cose che hai scoperto?
«Il periodo di studio è stato di un decennio, legato a quello di preparazione per le lezioni di design che tengo all’università. La maggior parte delle idee con cui abbiamo a che fare quando parliamo di design e di moda è legata al Bauhaus, la scuola di design più importante del ventesimo secolo. Mi ha stupito scoprire come quelle teorie fossero nate all’interno di contesti irrazionali, mistici e magici, laddove invece sono state applicate in mondi di tutto altro tipo, molto razionali e logici, come quelli della pubblicità, del marketing e dell’architettura».
Sei stato sorpreso anche da aspetti legati alla cultura quotidiana?
«Mi ha stupito scoprire che cento anni fa i bambini maschi venivano vestiti di rosa e le femmine di azzurro. In cento anni si può ribaltare anche quello che per noi è ovvio».
E come mai poi si sono invertiti questi colori?
«Ha influito molti il successo della Barbie. Era il giocattolo che ha venduto di più, ha cambiato il modo di fare giocattoli. Era la prima bambola che non era né un peluche, né mimava il corpo di un bambino per giocare a fare da mamma al figlietto. Era una donna adulta, su cui proiettare un’immaginazione del proprio futuro, nel bene e nel male. Ebbe un successo incredibile. Il suo brand era il rosa e tutti i produttori di giocattoli decisero di imitarlo».
Da mezzo secolo si parla di “società dell’immagine”, quanto internet e i social hanno cambiato questa definizione?
«L’hanno amplificata. Prima c’erano emittenti che ci bombardavano di immagini, oggi tutti le creano, le ripetono e le fanno rimbalzare. Quelle che diventano popolari sono rielaborate come parodia, diventano dei meme deformate e ribaltate, e vengono velocemente svuotate di significato. Gli studiosi di mass media di quarant’anni fa non potevano immaginarlo, perché prima il controllo era dell’emittente, che fosse Rai, Coca Cola o Mondadori. Oggi non è più controllabile».

In una società satura di immagini cosa attrae di più lo sguardo?
«Nessuna immagine da sola ha la forza di bucare questa mole. Lo può fare solo se è dentro un contesto che fa percepire l’immagine come qualcosa di nuovo e coerente. Questo contesto può essere una serie tv, un fumetto, un libro, qualsiasi cosa, ma senza una didascalia culturale un’immagine non ha alcun valore».
Quand’è che un’immagine diventa icona?
«Per diventare icona deve essere ripetuta e condivisa. Oggi la differenza tra icona e immagine svuotata di significato è molto labile. Un’icona può perdere ogni significato in un attimo. Le foto di Marilyn Monroe, per esempio, hanno completamente perso il loro senso. Lo riacquistano solo se vediamo un suo film. Marilyn era la prima donna bella a interpretare il ruolo di attrice comica, prima riservato ad attrici goffe o bruttine. Il suo fu un talento rivoluzionario. Solo rivedendo i film la sua immagine torna potente».
Come nasce un’idea di un progetto grafico?
«Da un lungo dialogo con il committente. Per un libro con l’editore, l’editor e il traduttore. Si decide se puntare su un’illustrazione o una foto, sul significato del libro. Su quello inizio a sperimentare e si giunge a una scelta condivisa».
I sondaggi dicono che la copertina è il fattore più importante per la vendita di un libro. Tu hai realizzato oltre 5.000 copertine: una responsabilità notevole…
«L’Associazione Italiana Edi­tori dice che se per qualche motivo nei siti che vendono libri online salta la foto della copertina le vendite crollano immediatamente. L’im­ma­gine aiuta le persone ßa orientarsi».
Cos’è più importante per fare una copertina di un libro?
«Deve parlare ai suoi veri lettori. È sbagliato fare una copertina urlata per un libro che parla a mille persone, come è sbagliato fare una copertina di nicchia per un libro che potenzialmente parla a un milione di persone. Bisogna essere onesti e non forzare la mano. Copertine troppo commerciali per libri che non lo sono non ripagano, perché i lettori si sentono fregati. L’editoria premia sui tempi lunghi e i lettori devono fidarsi».
Qual è l’errore più comune dei designer?
«Parlare con un “tono di voce”, metaforicamente, sbagliato per le persone a cui si rivolge. La grafica serve per orientarci in un mare di immagini. A colpo d’occhio devo capire se un certo libro può riguardare i miei gusti e le mie passioni. Fare una grafica bella, per il gusto di farla, ma che non parla alle persone giuste è un errore».
Oggi se una copertina piace viene fotografata in vari contesti e diventa anche virale su Instagram. Come vedi questo fenomeno nuovo per l’editoria?
«Mi piace molto perché la copertina prende una vita a sé. Diventa un piccolo totem, che esce dal contesto della libreria e prende una sua presenza di carattere, scenica».
Si è parlato molto della nuova grafica di Repubblica, se avessero chiesto a te di progettarla come l’avresti fatta?
«Ho molta stima per chi ha fatto il progetto grafico di Repubblica. La grafica di oggetti che frequentiamo tutti i giorni, come una pagina di giornale, ha dei tempi di metabolismo più lunghi, deve decantare. Secondo me è un progetto molto bello. Io certe cose le avrei fatte in maniera diversa, ma è molto coraggioso».

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