«Più che uno scrittore, mi sento il personaggio di un Philip K. Dick sotto acidi»

Un nuovo racconto di Matteo Cavezzali

1584101017570 1584101050.jpg L Attesa E Finita Il Coronavirus Sta Realizzando Il Sogno Dei PrepperLa mia quotidianità, come quella di molti scrittori, si muove in due direzioni: una è quella del contatto con il mondo esterno, l’altra è quella del mondo interiore, ovvero il momento della riflessione e della scrittura. Una è quella della socialità, l’altra è quella della solitudine. In questo momento sono privato di entrambe.

Il contatto con il mondo ovviamente è scomparso, quasi del tutto. Annullate tutte le conferenze, presentazioni di libri, viaggi. Ma il contatto con il mondo non è solo un discorso di promozione. È fondamentale anche per scrivere, perché è dall’incontro con gli altri che si possono conoscere e vivere le storie che confluiranno poi trasformate nella materia del romanzo.

In teoria questo ritiro forzato potrebbe essere il momento perfetto per scrivere, ma non è così. Per scrivere bisogna essere immersi in un mondo, quello che ognuno crea attorno alla sua storia e in cui l’autore si cala con i suoi personaggi. La situazione che viviamo ha una tale carica emotiva per cui in questi giorni più che uno scrittore mi sento un personaggio di una storia scritta da altri.

Sono dentro questa avventura distopica ambientata nel 2020 – cifra che ancora mi fa pensare al futuro– come nei romanzi che leggevo da ragazzo. Sono in un meta-romanzo scritto da Philip K. Dick sotto acidi, in cui quando vado a buttare i bidoni e incrocio uno sconosciuto con il cane potrebbe avere nelle sue cellule un virus che mi infetterà, o viceversa io potrei averlo in forma asintomatica e potrei infettare lui. Ci guardiamo con sospetto e ognuno tenta di stare il più lontano possibile dall’altro, facendo movimenti innaturali, goffi passi di lato, strambe giravolte. Vista dall’alto questa scena deve avere l’aspetto di una grottesca danza delle api. E intanto penso “ma cazzo sta succedendo? È reale tutto questo?”.

Qualche giorno fa ho incontrato il mio vicino e non l’ho riconosciuto. La mascherina gli copriva quasi tutto il volto, in testa aveva il cappuccio, e camminava con sguardo a terra, come se si vergognasse o avesse paura di dover uscire a fare la spesa e non volesse essere riconosciuto. Malapena mi ha salutato ed ha affrettato il passo, terrorizzato che volessi socializzare.

Il virus è silenzioso e invisibile, subdolo. Ci ha indirettamente infettato tutti. Difficile uscire da questa narrazione così totalizzante.

Poi penso: come ci racconteremo tutto questo quando sarà finito? Sarà solo il ricordo di quel periodo bizzarro quando ognuno stava isolato dal mondo e indossava buffe mascherine da chirurgo o sarà un racconto tragico, come quello del dopoguerra, con le sue vittime e il desiderio di non sentirne parlare mai più. Qualche settimana fa ci ridevamo su, come se fosse l’ennesima barzelletta, come se si trattasse dell’ennesima apocalisse Maya o il Millennium bug e ora siamo ridotti così. Allora mi faccio prendere dal delirio pessimista: se fosse la fine del mondo? Staremmo vivendo un momento unico, ma sicuramente non potrei raccontarlo a nessuno. La mia mente di scrittore è talmente contorta da farmi pensare che sarebbe un peccato assistere all’apocalisse e non poterne scrivere.

Quando sono immerso in questi vaneggiamenti improvvisamente ripiombo nella vita reale. Sono chiuso a casa con mio figlio di cinque anni che non va a scuola da un mese. Faccio i turni con mia moglie per lavorare e stare con lui. La mia giornata è metà meditazione zen e metà corso dal vivo di Art Attack. In quarantena io e mio figlio abbiamo costruito un robot di polistirolo, scritto un fumetto su un pannolino che parla, creato un libro dei sogni dove ogni mattina disegna i suoi sogni, giocato a ogni gioco di società che avevamo, compreso il rubamazzo con le carte da briscola, e anche ballato hit anni ’90 sul divano. In questo caso la vita, anziché romanzo distopico di Dick, diventa una commedia all’italiana. A prima vista fa ridere, ma ha quel sottofondo di malinconia, nel vedere questo bambino che non può vedere i suoi amici, né i nonni o gli zii, e chiede in continuazione “quando invitiamo qui Sofia?”, “quando andiamo al parco con Antonio?” e addirittura “quando riapre la scuola?”. Io rimango lì senza parole e cerco di inventarmi una distrazione, e allora lui mi risponde “quando finisce questo coronavirus?” e io non so cosa dire. Poi accendo la tv o guardo su internet e mi piombano addosso le notizie, come una valanga. Con medici stremati, con i lividi delle mascherine, e i malati costretti a morire senza poter rivedere i proprio cari. E mi faccio ancora quella domanda: “Cosa sta succedendo?”, come posso spiegare a un bambino qualcosa che non capisco?

E allora mi concentro sul concreto: riordino i libri, leggo qualche pagina, guardo mezzo film, e allora mi torna in mente quella cosa: “non posso uscire di casa”. Mi vengono le smanie, perché il ragazzino che ho dentro di me sa che le cose vietate sono le uniche veramente desiderabili. Forse sarei rimasto in casa comunque, ma sapere di non poter prendere un treno e andare dove voglio, anzi di non poter nemmeno uscire in strada, è una cosa che mi dà i brividi. Viviamo in una dittatura senza dittatore, in una guerra senza guerra, l’unica scelta che abbiamo è quella di fare la cosa giusta, ovvero per una volta rinunciare a noi stessi e pensare agli altri. Come nel contrappasso di un girone infernale dantesco per capire che abbiamo bisogno degli altri dobbiamo star lontano. Leggendo una riflessione di Pascal scritta nel 1650 ho trovato questa frase che pare diretta a noi oggi: “Tutta l’infelicità degli uomini ha origine da un semplice fatto. Non sono capaci di starsene tranquilli nella loro stanza”.

E forse è solo questo che conta, stare tranquilli, e così sono tornato a scrivere, una storia in cui c’è tanta vita, che nulla ha a che fare con tutto questo, se non per una cosa, che questi tempi ci stanno insegnando: nessuno si salva da solo.

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