Brain, il rapper che fa il venditore in Russia…

Un ritratto grafico di Brain realizzato da Filippo Papetti

Parla Brain

Francesco Spatafora, meglio noto come Brain, è uno dei maggiori rapper della scena bolognese di seconda generazione, uno dei tanti “regaz” cresciuti seguendo le orme dei vari Sangue Misto, Neffa e Joe Cassano e approdato infine a uno stile personale, prima con il gruppo Fuoco Negli Occhi e poi da solista, con una serie di dischi e mixtape che l’hanno imposto come uno dei rapper undeground più rispettati della penisola.

L’occasione per scambiare quattro chiacchiere con lui è data dall’imminente pubblicazione del suo nuovo album – fuori l’8 marzo – e dalla partecipazione a “Under Festival Vol.3”, una due giorni di hip hop organizzata da Il Lato Oscuro della Costa e Cisim, che si terrà a fine marzo al Bronson di Ravenna.

Partiamo subito parlando di Under Festival: se non sbaglio gli anni scorsi eri anche nell’organizzazione.
«Sì, ero uno degli art director del festival, se così si può dire. Under è nato tre anni fa da un’idea mia e di Moder (de Il Lato Oscuro della Costa, ndr) per dare spazio ad alcuni artisti con cui eravamo in connessione e che secondo noi meritavano più visibilità. All’epoca c’era grande unità di intenti e questo sicuramente ha portato buoni frutti: si era venuto a creare proprio un bel team di lavoro e amicizia. Oggi le cose sono un po’ cambiate, ognuno ha intrapreso il proprio percorso e i vari impegni della vita di tutti i giorni hanno un po’ scombinato le cose. C’è da dire però che i nomi su cui avevamo puntato all’epoca si sono rivelati tutti validi e stanno riscuotendo il successo che meritano. Una scommessa vinta, insomma».
Sarai comunque sul palco, a presentare il tuo nuovo disco. Mi incuriosisce il titolo, Leo­cadia, il nome di tua moglie. Come mai questa scelta?
«È il nome che rappresenta più di ogni altro quello che ho passato nell’ultimo periodo della mia vita. Non è un disco d’amore: è un disco di ansia. Due anni fa infatti io e mia moglie siamo entrati in  crisi dopo otto anni insieme, e siamo andati vicinissimi al divorzio, con nostra figlia ancora piccola e tutto quello che ne sarebbe potuto conseguire. Poi mettici che il mio vero lavoro – faccio il venditore – ha preso una piega molto più seria e mi sono ritrovato a viaggiare tantissimo, all’estero, principalmente in Russia. Vivere questa sorta di pendolarismo, passando molto tempo da solo, in albergo, e nel mezzo di una crisi famigliare ed esistenziale, è stato piuttosto problematico, e queste esperienze per forza di cose mi hanno cambiato».
Non ti sei sentito un po’ troppo esposto ad affrontare argomenti così delicati in fase di scrittura?
«In realtà di veramente esplicito c’è molto poco. Ho cercato più che altro di elaborare tutte le varie emozioni contrastanti, trasfigurandole nel rap. Entro un certo livello infatti ritengo sia fondamentale, per un artista, mettere la propria vita nell’arte. Altrimenti non è arte, è un’altra cosa. Fai conto inoltre che quasi tutte le strofe sono state scritte in una condizione mentale non proprio lucidissima. In albergo da soli è una noia mortale, e i russi bevono di brutto: non potevo certo essere da meno… (risate, ndr). Il disco è stato scritto così».
Il rap – non senza buone ragioni – viene spesso considerato un genere musicale da ragazzini. In Leocadia invece tratti tematiche molto più adulte e complesse. Ti sei posto il problema di come questo possa essere recepito dai tuoi fan più giovani?
«Bella domanda. In effetti no, non mi sono posto il problema; e se devo essere sincero – e con tutto il rispetto per i fan – non mi interessa neanche. La mia faccia è sempre quella, il mio stile è sempre quello. Però questo disco è venuto fuori così, di getto. Anzi, spero che chi mi segue lo faccia non solo per ascoltare uno che rappa velocissimo o fa mille incastri. Credo sia interessante seguire il percorso di crescita anche personale di un artista. A mio parere, e proprio perché Leocadia è un disco sia di hip hop che di vita, questo è il mio album migliore, sono molto soddisfatto. E spero venga recepito».

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