Dalla depressione a Sanremo: Ghemon, il rapper che vuole lasciare il segno

L’artista in concerto il 31 marzo al Vidia di Cesena, in procinto di pubblicare il suo primo libro: «Sarà un diario di appunti, non una biografia»

Ghemon Ossigeno

Ghemon ospite a “Ossigeno”, il programma di Manuel Agnelli andato in onda su Rai Tre

Giovanni Luca Picariello, meglio noto come Ghemon, è senza dubbio uno dei miglior rapper della sua generazione. Negli ultimi anni, perlomeno dalla pubblicazione del penultimo album Orchidee (2014), e dopo un percorso di studio sulla propria voce che va avanti da almeno un decennio, Ghemon ha incominciato anche a cantare, seguendo una via intrapresa anche da altri – come Neffa – ma mantenendo una traiettoria molto personale, figlia di un background ben preciso fatto di soul e hip hop di un certo tipo, e ben lontana dalla ricerca del successo radiofonico a tutti i costi.

Mezzanotte, il suo ultimo disco, prosegue questo discorso ma in maniera più oscura e catartica, essendo un album incentrato in gran parte sul racconto della depressione clinica che l’ha colpito negli ultimi anni e che l’ha costretto a fare i conti con se stesso. È stato quindi un piacere vederlo in gran forma sul palco dell’Ariston per l’ultimo Festival di Sanremo, a suggellare il superamento del brutto periodo duettando con Roy Paci e Diodato cantando “Adesso è tutto ciò che avremo”. In quella che, se ce ne fosse stato bisogno, è stata l’ennesima conferma di un grande talento della scena hip hop nostrana, a suo agio anche nel tempio della canzone italiana.

Questa è la chiacchierata che ci siamo fatti in occasione del suo live al Vidia di Cesena, il 31 marzo.

Mezzanotte è uscito ormai da qualche mese. Sei contento di com’è stato recepito, considerando anche che è un disco complesso e molto profondo?
«Ancora no. Penso che questo disco abbia ancora tantissimo da rivelare e me ne rendo conto da quanto sia aumentato il numero di persone che mi scrivono oggi “inizialmente non lo avevo apprezzato e lo avevo messo da parte, penso di essermi sbagliato”. Non che io desideri un plebiscito, l’arte bella è pure divisiva, ma penso che soprattutto coi concerti il disco possa sprigionare ancora molta energia»
Com’è cambiato il tuo metodo di scrittura e il tuo modo di lavorare in studio da quando sei passato dalle produzioni musicali di un beatmaker, al suonare con una band vera e propria?
«È semplicemente più libero e ne sono felice, ma ho conservato anche una parte di quello che facevo prima, perchè il beatmaker sono diventato io. Il primo approccio alle strumentali è sempre mio: accendo il computer, stendo un loop di batteria, faccio un basso, qualche accordo di piano e poi ci disegno una melodia con la voce. È più lungo come processo ma più divertente».
Nel corso degli anni sei sempre stato in continua evoluzione e non hai mai smesso di studiare. Perché? È così importante per te superare costantemente i tuoi limiti?
«Non sopporto l’idea di non sapere fare una cosa verso cui mi sento portato. Anzi, odio l’idea di non provarci nemmeno. Però prima di provarci sudo, studio. A volte sarei potuto passare alla pratica anche più velocemente, credo di essere ossessionato dal rispetto nei confronti dell’arte. Se altri hanno speso anni per diventare bravi in qualcosa, non mi va di improvvisarmi».
A breve uscirà il tuo primo libro. Puoi darci qualche anticipazione, di cosa si tratta?
«Posso dirti cosa non è, cioè una biografia. È un diario di appunti, un taccuino di vita, a volte ci sono capitoli lunghi, a volte una poesia. Ci sono tante battute e freddure, c’è un racconto, ci sono i momenti duri, ma non è un focus sulla mia vita perchè ci sono tante esperienze più recenti di cui mi sentivo di parlare. Ho provato a compilarlo in modo quanto più personale possibile».
Io ti seguo fin dai tempi del tuo primo demo con i SangAmaro, probabilmente non ti ricordi ma mi spedisti proprio tu la cassetta nel lontano 2000. Ti saresti mai aspettato di fare tutta questa strada?
«Bella domanda! Ho sempre ambito molto in alto, sapevo che volevo in qualche modo lasciare il segno. Non credo di essermi mai immaginato sarebbe successo in questo modo. A questo punto penso che per me conti più il cammino che il punto d’arrivo. Spero di avere sempre la fame per considerare tutti i traguardi come tappe e non come arrivi».

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