A Santarcangelo tra “Deserto rosso”, Antonioni e la paura: parla Daria Deflorian

Al festival dei teatri debutto della nuova performance della coppia Deflorian-Tagliarini

Foto Deflorian Lei Tagliarini © Elizabeth Carecchio(1)La coppia artistica formata da Daria Deflorian e Antonio Tagliarini si è affermata sulla scena italiana degli ultimi dieci anni come una delle compagini più originali e fresche della prosa contemporanea. Capaci di affrontare temi difficili con grande leggerezza, Deflorian e Tagliarini sono molto apprezzati all’estero. Proprio durante una residenza a Parigi è nata la performance Scavi, dedicata a Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni. La performance rinnova la feconda collaborazione con Francesco Alberici e debutterà in Italia durante il Festival di Santarcangelo, il 13 e 14 luglio, ospitata dalla scuola elementare Pascucci. Daria Deflorian (nella foto di Elizabeth Carecchio) ci svela qualche dettaglio in più.

Scavi è dedicato al film più famoso girato dalle nostre parti. Il prossimo autunno debutterete al teatro Argentina di Roma con Quasi niente, di cui questo spettacolo costituisce una sorta di anteprima. È così?
«Più che un passaggio verso un altro spettacolo, Scavi è un oggetto che vogliamo mantenere così, nella sua freschezza, e riproporlo altre volte. La stessa cosa ci è già capitata con Reality, dove abbiamo prodotto sia lo spettacolo da palcoscenico sia la performance Cose, per un numero limitato di spettatori. Scavi è nato a Parigi, nell’Istituto Italiano di Cultura, nel novembre del 2017. Da allora abbiamo deciso di migliorarlo e lavorarci ancora, perché la sua forma ci interessa molto: è un dialogo con le persone più immediato, più intimo, che a teatro è difficile ricreare».
Differenze formali a parte, questi due spettacoli avranno anche contenuti diversi?
«Quasi niente avrà un imprinting molto diverso da Scavi. In quest’ultimo ci riferiamo al film di Antonioni in maniera oggettiva, parlando delle scoperte che abbiamo fatto, del nostro rapporto con l’opera. In Quasi niente è come se avessimo ingoiato, masticato e digerito Il deserto rosso, trasformandolo in qualcosa di più personale, dove non si fa più quasi accenno al film. L’idea è produrre uno spettacolo fruibile anche per chi non l’ha visto, dove si parla di tematiche contemporanee».
Per quanti spettatori è pensato Scavi?
«Pochi, al massimo una quarantina per replica, per cinque repliche complessive. Ma il bello del Festival di Santarcangelo è che c’è anche spazio per progetti come questo, che non seguono la logica del numero e del mercato».
Come ha spiegato la direttrice Eva Neklyaeva, quest’anno il tema del festival è la paura, evento emotivo fisico e politico allo stesso tempo. Come si integra questo progetto all’interno di questo tema?
«Io e Antonio non facciamo teatro direttamente politico. Allo stesso modo, cerchiamo di evitare un teatro di emozioni forti, provando a ridurre l’elemento drammatico sulla scena. In questo Antonioni ci corrisponde. Allora fu tacciato di fregarsene della realtà; oggi i suoi film raccontano quasi una visione del presente, e sono molto più politici proprio perché scevri di ideologie, ma pieni di dubbi e domande. Anche noi cerchiamo di essere pieni di dubbi, a partire dalle scelte artistiche che compiamo: con chi lavoriamo, quali tempi di lavoro ci diamo, dove mettiamo lo spettatore… Se evitiamo un’emotività eccessiva è anche perché la paura si è spostata nella politica, che gioca sull’emotivo: sentiamo l’obbligo di sottrarci a questo gioco».
C’è qualcosa nel film di Antonioni che le ha fatto paura?
«Mi ha fatto paura il fascino e la grandissima passione che ho provato per la figura di Giuliana, interpretata da Monica Vitti. Mentre studiavamo all’Archivio Antonioni di Ferrara, abbiamo scoperto dagli appunti del regista che uno dei suoi primi progetti era dedicato all’ospedale psichiatrico di Ferrara. Purtroppo il film non fu mai completato, ma qualcosa del fascino per quelle alterità è rimasto sotto le sue opere; e mettersi a confronto col fascino che proviamo per la diversità è una cosa importante. Ci costringe a fare i conti con la paura dell’altro; un altro che siamo anche noi stessi. Quella parte oscura di noi che ci scappa. Ecco: il fascino di Giuliana, nonostante l’amore che mi resta per questa figura, è diventato un fenomeno sempre più complesso via via che andavamo avanti nello studio».
Giuliana è una figura marginale. Questo tema la accomuna ad alcuni vostri spettacoli precedenti, che avevano spesso al centro figure marginali. Esiste questo collegamento per voi?
«Assolutamente. Prima di tutto perché siamo sempre noi, e proseguiamo questo viaggio per conoscere meglio un fenomeno come la marginalità. Non è che siamo “per” la marginalità, “a favore” di essa: ciò significherebbe escludere la paura, la complessità, il bisogno di allontanarsene che naturalmente ingenera. È una sana presa di distanza da qualunque posizione che diventi sistemica, per non essere definiti da ciò che si fa. Definire nel senso letterale: uccidere. Perché de-finire è sempre uccidere. In questo Giuliana è un ottimo campo d’azione. È un essere semplice, a suo modo protetto, che non vuole scappare dalla propria realtà. È qualcosa dentro di lei che scappa, ma non è lei. Non è il rifiuto ideologico di una condizione di benessere. Questo è molto umano: una dimensione che l’accomuna a tutta l’umanità».
Di cosa è malata Giuliana? Cos’è che vuole scappare in lei?
«Mi verrebbe da risponderti come Antonioni faceva spesso: non lo posso dire. Non per ritrosia, ma perché esistono delle fragilità, come un sentire un po’ animale, un sesto senso, indefinibili a parole. Come quando vivi qualcosa ma non ne hai il pensiero. Lei scappa per conservare di un senso di salute, un senso di sanità che non corrisponde per forza alla normatività. Essere sano, nel senso più antico del termine, sapersi curare, non vuol dire normalizzarsi o entrare in una casella. Significa rispettare la natura, la propria diversità. Tutti, in un certo senso, scappiamo alla norma».

Il libro fotografico
36965652 10157540765863032 2936651083679793152 OSabato 14 luglio alle 12 alla scuola elementare Pascucci di Santarcangelo Deflorian e Tagliarini parteciperanno insieme all’autrice alla presentazione del libro fotografico di Alessandra Dragoni Troppo sole per Antonioni (Danilo Montanari editore, book design in collaborazione con Erica Preli EEE studio).
Dragoni nel volume vuole restituire l’attesa della troupe de Il deserto rosso, costretta nel gennaio del 1964 a interrompere le riprese aspettando il ritorno della nebbia.

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