Gualtieri e ciò che ci rende umani:«La poesia è una potente forma di energia»

Parla l’anima del Teatro Valdoca che organizza la rassegna biennale di incontri tra filosofia e arti. «Nel teatro oggi c’è una cecità diffusa in chi opera e chi guarda»

PORPORA Mariangela Gualtieri©MelinaMulas Web

Mariangela Gualtieri

Non è soltanto una delle più affermate poetesse italiane. Mariangela Gualtieri, cesenate classe ’51, è anche una delle grandi donne del teatro romagnolo, al fianco di Chiara Guidi, Ermanna Montanari, Elena Bucci, Chiara Lagani e molte altre. Dai primi anni ’80, insieme al regista Cesare Ronconi, anima il Teatro Valdoca, portando sui palchi di tutta Italia la sua “drammaturgia poetica”.

La sua parola, innervata di immagini forti ma allo stesso tempo semplici e leggere, ha sedotto grandi interpreti (recentemente ho visto al festival Crisalide di Forlì una bellissima lettura di Roberto Latini) e l’ha portata a pubblicare per la prestigiosa collana di poesia di Einaudi.

Da otto anni, la Gualtieri cura anche una rassegna biennale intitolata “Ciò che ci rende umani” (dettagli a questo link): un insieme di incontri che tengono assieme poesia, filosofia e arti, ma anche scienze come la fisica e la biologia. Giunta alla sua quarta edizione, la rassegna quest’anno ospita nomi di spicco nazionale, come il poeta Milo De Angelis, il filosofo Umberto Curi, il neurobiologo Stefano Mancuso e il fisico Guido Tonelli, e si terrà dal 12 ottobre al 4 novembre in vari luoghi di Cesena.

Partiamo dal titolo – insolito per una rassegna – Ciò che ci rende umani. L’essere umano non si sta dimostrando un buon animale e neppure un buon abitante di questa terra. Una provocazione: non sarebbe meglio concentrarci su ciò che non ci rende umani?
«L’essere umano è anche un meraviglioso animale. Troppo spesso ce ne dimentichiamo. Sì, le cose non vanno troppo bene nella specie nostra – i notiziari ci informano dettagliatamente di tutto ciò che è pessimo in noi – ma c’è anche tanta magnificenza. Ci sono tanti esseri umani che fanno innamorare per le loro capacità, per la loro generosità, e mi pare che di questo si parli troppo poco. Se penso ad esempio alla mia infanzia, negli anni ’50, rivedo un mondo spietato e ingiusto, soprattutto pensando ai vecchi, alle donne, ai bambini, agli animali. Penso che per l’umano ci sia un cammino in ascesa, dalla scimmia verso qualcosa che ora non sappiamo, non vediamo, con cadute e stalli, è vero, ma verso il meglio».
Foucault sosteneva che l’uomo fosse un’invenzione recente nella storia del pensiero, destinato a cancellarsi come “sull’orlo del mare un volto di sabbia”. Se ci guardiamo attorno, la tentazione di dargli ragione è forte. Il vostro festival lo mette invece al centro della riflessione. È diventato rétro parlare di umanità?
«È vertiginoso parlare di umanità, oggi. È quasi scandaloso. C’è un contagio del male, un contagio del bene, e smettere di parlare di umanità significa cadere totalmente nell’ombra, starci dentro, alimentarsi e generare ombra. Ma non c’è solo ombra: qualcuno deve tenere vivo ciò che adesso fa luce, qualcuno deve prendersi il compito di fornire buon nutrimento, culturale, psichico e anche spirituale. Per fortuna in molti lo stanno facendo. Questo è anche l’intento di Ciò che ci rende umani».
Uno dei focus di questa edizione sarà l’idea di natura, concetto che da qualche secolo è stato preso in ostaggio dalle scienze. Che lezioni possono dare la fisica e la biologia a poeti, teatranti ed umanisti, secondo lei?
«Negli ultimi anni la scienza è diventata quasi un’epica, con le sue scoperte sbalorditive. L’astrofisica ha riscritto una propria esaltante cosmogonia. La neuro-botanica ci dice che le piante vedono e odono come noi. La scienza ci sta ripetendo che non siamo al centro dell’universo, che non siamo i migliori, ma parte di un grande concerto; ci sta dicendo che chi in esso stona, viene buttato fuori dalla vita. E questo è il rischio che stiamo correndo».
Come si integrano i vari appuntamenti di questa edizione in questa cornice? Mettere in dialogo Lucrezio, la neurobiologia vegetale, la poesia contemporanea, Platone e il bosone di Higgs non è cosa da poco.
«La nostra rassegna si è sempre connotata per un suo libero spaziare, e stiamo stretti nei mono-temi. Ma mentre penso a questa domanda, mi appare così chiaro il legame fra questi mondi, e forse questo è il bello di questo tempo: questo sconfinare di ogni cosa, questo comprendere che tutto è collegato. Le energie arcaiche di cui parla Lucrezio sono le stesse di cui ci racconta l’astrofisica; Eros di cui parla Platone è ancora quella forza che ci muove, che ci accende, che ingravida noi e tutta la natura. La poesia è anch’essa una potente forma di energia, condensata in parole».
La natura è da sempre uno dei temi più esplorati nella sua poesia. Ricordo dei bei versi da Bestia di gioia: “La nuvola piuttosto adoreremo (…) Piuttosto la foglia | che sa mollare la presa”. Milo De Angelis, consegnandole il premio Ceppo nel 2011, diede questa motivazione: “Per la grande forza lirica con cui rappresenta la natura”. Ecco, qual è la “sua” natura? E cosa cerca in essa?
«È forse banale dirlo ma io sono natura. Gli elementi che mi compongono sono gli stessi che compongono ogni altro essere vivo, e le sostanze che mi costituiscono vengono quasi certamente dallo spazio. Sono antica quanto il cosmo, nelle mie componenti. L’acqua di cui in grandissima parte sono fatta era forse una cometa che ha impattato con la terra. E allo stesso tempo mi rigenero continuamente, ho primavere e inverni, ho fioriture e lampi. Non so più concepire un sapere che non sia anche un sapere del corpo, e quindi un dialogo costante con tutto ciò che non solo ci circonda, come siamo soliti dire, ma anche ci sostanzia. Noi siamo ciò che ci circonda, ne facciamo profondamente parte».
Il prossimo anno, dal 16 al 18 maggio, sarete a Bologna con Il seme della tempesta, progetto speciale per l’Arena del Sole, un lavoro già presentato a Napoli che si preannuncia molto ambizioso. Ce lo racconta?
«Il seme della tempesta completa il progetto Giuramenti, che già di per sé è stato per noi un’avventura grandiosa – uso questo aggettivo umilmente, solo per segnalare quanto questa esperienza abbia cambiato ognuna delle persone che vi ha partecipato. Lo completa in modo bizzarro perché antepone a Giuramenti due nuove parti: un prologo solo musicale e visivo ed una seconda parte che mi vede protagonista, con un monologo quasi testamentario».
In una fase storico-politica segnata dalla quasi totale abdicazione all’approfondimento e alla riflessione, il teatro è diventato inutile? Il teatro serve davvero a migliorare la società o è soltanto un nostro pio desiderio, una foglia di fico per mascherare l’ambizione personale?
«Il teatro è un’arte talmente potente che anche a livello dilettantesco riesce a volte a regalare momenti sublimi. Penso a certi spettacoli fatti dai bambini o addirittura parrocchiali, militari. È inutile l’arte? È inutile la bellezza? Sì, è talmente inutile e talmente necessaria che si è scoperto che alcuni organismi viventi totalmente al buio sono colorati, sono ornati da colori. Io credo che la scuola serva a migliorare la società: l’arte sta in un altro ordine di grandezze. Ma qui si apre un grande capitolo che meriterebbe più tempo e più spazio».
Quali sono, a suo parere, i mali più gravi che affliggono il sistema teatrale italiano?
«Domanda enorme che richiede una riflessione articolata. Come diceva Carmelo Bene, nel teatro sussistono sistema copernicano e sistema tolemaico, l’uno non ha soppiantato l’altro. Vi è una cecità diffusa, in chi opera, in chi finanzia, in chi guarda, anche. Per me il teatro è un’arte, e dunque è male ogni volta che non è opera d’arte, ogni volta che non si pone in quella soglia rivelatrice che per me deve connotare ogni espressione artistica».

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