L’Amica geniale, dal romanzo alla scena con Fanny&Alexander

In scena all’Alighieri per il Ravenna Festival con la prima nazionale di Storia di un’amicizia

Laganimenni

Chiara Lagani e Fiorenza Menni in scena in Storia di un’amicizia

La storica compagnia Fanny&Alexander sta lavorando a un progetto  dedicato al best seller di Elena Ferrante, L’Amica geniale, un testo che, caso più unico che raro per gli autori contemporanei italiani, è arrivato a conquistare perfino gli Stati Uniti, nonostante sia pubblicato da una piccola casa editrice come e/o e la vera identità dell’autrice sia più o meno ignota, e comunque mai ufficilamente rivelata. Dopo aver un lungo lavoro su Ada di Nabokov e sul ciclo de Il Mago di Oz, è dunque questa Storia di un’amicizia la nuova la nuova sfida per la pluripremiata compagnia di teatro contemporaneo. Al Ravenna Festival, il 5 luglio al Teatro Alighieri, vedremo la seconda parte di questo lavoro, dopo che la prima ha girato un po’ in tutta Italia riscuotendo l’apprezzamento della critica. Abbiamo chiesto a Chiara Lagani, che ne è ideatrice e interprete (insieme a Fiorenza Menni) e a Luigi De Angelis, ideatore e regista, di raccontarci qualcosa di più del progetto.

Come nasce l’idea di trasporre in teatro un’opera letteraria di quelle dimensioni? Cosa vi ha colpito e conquistato?

Chiara Lagani: «L’opera della Ferrante ha un respiro epico, in più riesce a concretizzare una relazione appassionante tra il lettore e i personaggi della storia, che finiscono per vivere, nelle pieghe del quotidiano, come fantasmi familiari. Leggere è dunque anche frequentarli, approfondire la loro e la propria conoscenza. Il meccanismo guida che regola l’amore per la vicenda delle due amiche geniali è certo segnato dal processo dell’identificazione: le figure divengono specchio riflettente delle proprie ossessioni, delle proprie fragilità e dei propri desideri. Ognuno ha avuto un’amica geniale, e qui ritrova parte della propria storia. In particolare a me è capitato di rivedere nell’amicizia tra Lila ed Elena il riflesso di quella che mi lega all’attrice che è con me sulla scena, Fiorenza Menni. La storia che con Luigi De Angelis abbiamo deciso di racccontare parla anche dell’amicizia tra me e Fiorenza. Quanto alle dimensioni dell’opera… Da sempre abbiamo concepito amori smodati per le opere ciclopiche: si pensi al progetto su Ada di Nabokov, una cronaca familiare dipanata in otto spettacoli, oppure il ciclo di Oz, tra teatro e pubblicazioni (l’ultima è il Millennio Einaudi uscito a novembre a mia cura e traduzione). Potrei dire che in certi luoghi labirintici si sa sempre quando si entra, ma non si può prevedere quando se ne uscirà.

Cosa scopriranno i lettori della Ferrante dal vostro spettacolo? Cosa vi aspettate di mostrare loro che non abbiano già colto del testo? E come hanno reagito quelli che hanno visto il primo spettacolo?

CL: «Scopriranno, forse, qualcosa di più del loro stesso possibile modo di guardare a quell’opera. Credo che non esista, in fondo, un’opera che possa mostrare di più di un’altra opera: esistono i processi di contiguità e le riattivazioni mitiche, però, e il teatro si propone sempre come un grande riattivatore archetipico. Il testo in teatro, che sia un testo classico o contemporaneo, spesso sembra un grande corpo inerte da rianimare, e rivive poi nutrendosi del sangue e dell’anima di chi sta sulla scena; quando l’opera è viva lascia aprire su d sé dallo sguardo degli spettatori nuove domande e di questo continua a nutrirsi. 
Chi ha visto il primo capitolo della nostra Storia di un’amicizia, generalmente, è entrato in questo meccanismo di riconoscimento desiderante. Tra i pochi che non avevano ancora letto l’ Amica geniale, alcuni ci hanno confessato di volerlo subito fare».

Come avete lavorato rispetto alla parola della Ferrante?

CL: «Il lavoro sul testo d’origine è di assoluta fedeltà alla pagina scritta. Penso ai nostri corpi come a una specie di superficie tridimensionale vivente in cui si scrive e si compone il racconto, che è fatto di parti recitate e di un archivio di gesti che appartengono alla tradizione coreografica che più amiamo, raccolti in un particolare lavoro di studio e ricerca condotto da Fiorenza, e ricomposti poi da Luigi in una specie di ulteriore lingua musicale dei corpi, che passa per i testi e li aiuta a concretizzarsi nella carne. Ci sono poi alcune fuoriuscite dall’opera matrice, che sono i varchi naturali che il desiderio apre a tutti i lettori: la curiosità fondativa che ti fa chiedere, ad esempio, dove siano finite le due bambole perdute nello scantinato nero dalle due amiche bambine. Sono varchi che alimentano la relazione fantastica con un immaginario largo, innescato e riacceso dall’opera: senza quelle fuoriuscite, forse, non esisterebbe nessuna vera lettura».

 Cosa cambia tra il primo spettacolo già portato in scena un po’ in tutta Italia e questa seconda “puntata” che invece debutta a Ravenna? Come proseguirà il progetto teatrale?

Luigi De Angelis: «Il progetto teatrale si compie con questa seconda puntata che conterrà anche la prima, come primo movimento o atto. Il nostro desiderio è quello di far esperire allo spettatore un viaggio, un bagno nelle diverse temperature, colori e snodi cruciali della tetralogia di Elena Ferrante, a partire dai suoi presupposti fondativi e archetipici, tramite un vero e proprio prisma emozionale, che non disdegna le sfumature storiche, gli affondi nei mutamenti e nelle fratture di mezzo secolo d’Italia, ma che riverbera e s’ininnerva nelle pieghe di un’amicizia di sessant’anni. Il secondo movimento di quella che sarà la tappa ravennate coinciderà con l’allargamento di orizzonte del romanzo, dal rione all’Italia intera, passando per l’area metropolitana Napoletana, il boom economico, le proiezioni e storture a esso connesse, attingendo a universi visivi e sonori del mondo reale, a gestualità e coreografie che appartengono ormai alla storia della danza mondiale e che hanno connotato quegli anni in movimento, in trasformazione, in cerca di nuovi confini culturali, e che hanno attinto così tanto proprio dai cambiamenti sociali e culturali in atto in quel tempo. Se il primo movimento è la presentazione delle due protagoniste e figure chiave del romanzo come due figurine di un album fotografico da ritagliare e poi animare, sulle quali proiettare la propria immagine interiore delle due amiche geniali, il secondo tempo si arricchisce dell’entrata in scena di nuove figure del romanzo, sempre incarnate da Chiara Lagani e Fiorenza Menni, che si lasceranno attraversare dai tipi, dalle maschere, dai tic, dalle cadenze, dalle voci di questo caleidoscopico e variegato panorama».

 Secondo voi perché questo testo ha conquistato un pubblico mondiale, cosa non frequente per gli autori italiani?

LDA: «Perché parla a tutte e a tutti, a prescindere dal ceto sociale, al di là di longitudini e latitudini. Ognuna, ognuno abbiamo un’amica o un’amico geniale o l’abbiamo avuto, o persiste in noi come un’ombra, che ci parla a distanza, che travasa in noi, come se fossimo abitati e agiti, a tratti, da una voce altrui, da un pensiero altrui, che perde i suoi margini per entrare nei nostri. Parla della ricerca di un’identità, di una forza del carattere, di un femminile alle prese con le difficoltà sociali e culturali del proprio tempo, parla di legami simbiotici che avvelenano e nutrono il nostro quotidiano. Parla della perdita dei confini e anche dei mutamenti profondi di un paese tramite le metamorfosi di due corpi e anime tra esse per sempre interconnesse».

Vi piacerebbe consocerla? Cosa pensate della sua scelta di anononimato? E delle “indagini” fatte da alcune grandi testate per rivelarne l’identità?

LDA: «Le indagini su Elena Ferrante sono per noi assolutamente volgari. Avvertiamo in questa scelta di anonimato una ferita genuina da rispettare, da cui è scaturita fino ad ora solo tanta bellezza. Perché dover violare questo voto di silenzio, questo velo, questa scomparsa enigmatica che hanno generato fino ad ora opere autonome, che non necessitano di alcun complemento biografico?»

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