Jacopo Quadri, dal documentario sulla campagna al lavoro con i grandi registi

Montatore per Bertolucci e Sorrentino, segue anche la casa editrice Ubulibri, fondata dal padre Franco

Jacopo Quadri

Jacopo Quadri

È il montatore di fiducia dei più grandi registi italiani contemporanei. Jacopo Quadri, milanese classe ’64, figlio d’arte (suo padre era Franco, critico teatrale patron della Ubulibri), ha lavorato con i migliori: Bertolucci, Sorrentino, Rosi, Virzì, Martone e molti altri. Il suo sguardo attento ha contribuito alla nascita dei film di questi maestri e dal 2015 si è volto al mondo del documentario.

Lorello e Brunello è l’ultima fatica di Quadri regista: uscito nel 2017, il documentario segue la vita di due fratelli contadini a Pianetti di Sovana, borgo dimenticato nella Maremma più profonda. Giovedì 11 aprile, alle 19, il documentario verrà proiettato gratuitamente al teatro Rasi (nell’ambito dei Parlamenti di Aprile). Ho parlato col regista per prepararmi alla visione.

Lorello Brunello

Il documentario “Lorello Brunello”

Perché ha sentito il bisogno di raccontare quella campagna?
«Perché è un luogo che conosco. Sono persone che conosco da tanti anni, volevo stare con loro, filmarli e raccontarli. Capire io stesso il loro lavoro, come si svolge e soprattutto perché lo fanno. Come fanno a lavorare sempre, giorno e notte, senza alcuna pausa».
Si è parlato di “vite invisibili”.
«Esatto. Noi cittadini arriviamo alla sera e stacchiamo. Abbiamo qualcosa che ci dà sollievo, che dà un altro senso alle tante fatiche. Loro no, non hanno altra scelta se non dormire, perché sono stremati. L’idea della vacanza, dello svago, semplicemente non c’è».
È riuscito a capirci qualcosa?
«No! Non c’è una risposta filosofica nel film. Ma almeno mi sono avvicinato a questa realtà, che noi di solito sfioriamo in molto molto superficiale. Questo film è un mezzo per conoscere meglio chi lavora con la terra e con gli animali, per mettere in comunicazione due mondi diversi».
Come hanno risposto al film i suoi protagonisti?
«Lorello, Brunello, Ultimina: tutte le persone del documentario sono state molto rispettose del nostro lavoro. Non hanno mai voluto vedere immagini prima, si sono fidati di noi. Quando l’abbiamo visto tutti assieme la prima volta erano contenti. I gemelli in modo abbastanza distaccato e sobrio; Ultimina si è emozionata. Temeva di vedersi, ma alla fine si è divertita. Addirittura vuole continuare a lavorare con noi: lei è più diva rispetto agli altri due».
Quando si parla di campagna si tende a usare molta retorica. Ha sentito questo pericolo mentre girava il film?
«Non ho sentito mai pericoli del genere. Il nostro sguardo è molto lontano dalla retorica, dalla televisione. Mi interessava quel tipo di campagna perché è al di fuori dal cliché della toscanità e della campagna “buona”. Non c’è nulla di biologico nel documentario. Loro stessi non hanno niente di eccezionale».
Che cosa intende?
«Spesso si fanno ritratti di persone che lo meritano perché hanno inventato qualcosa, o fanno il pane in un certo modo, e così via. O, al contrario, si fanno ritratti di personaggi particolarmente ignoranti o burberi. Loro non sono così. Parlano italiano, non dialetto, sono istruititi. Sono persone normali. Mi piaceva che ci fosse un’identificazione più facile fra loro e gli spettatori. Così ti spogli di qualsiasi romanticismo o di retorica. Qualcuno ha detto che questo non è un film per vegani: è vero».
Lei parla di uno sgretolamento dell’identità contadina, minacciata dai grandi gruppi agricoli.
«Più che sgretolamento, si rischia la desertificazione. Non c’è più gente che vive e lavora lì. I protagonisti non hanno figli. Quelli che li hanno, come Ultimina, rimangono soli. I più vecchi muoiono e verranno rimpiazzati o dai turisti, o dai grandi latifondisti, o più semplicemente i luoghi verranno abbandonati. Il futuro non è brillante, insomma. Mancano le persone che continuino questo lavoro: e per come siamo fatti in Italia, se anche trovassimo persone dall’estero, non li vorremmo».
Lei ha masticato fin da giovane il teatro, grazie a suo padre, e ha collaborato con i più grandi registi italiani. Dal suo punto d’osservazione, ci sono differenze fra “registi puri” e “registi teatranti”?
«Non saprei rispondere. Quando lavoro, indipendentemente dal regista, non mi pongo questa domanda. Penso a Martone, Andò, Delbono: sì, fanno spettacoli teatrali, ma quando monto non ci penso. Credo che dipenda dal regista, a livello individuale. In generale però è una bella cosa che i linguaggi si mescolino. L’idea che si possa passare dal teatro al cinema più facilmente, che i compartimenti siano meno stagni: questo è bellissimo. Potersi contaminare arricchisce – ecco, mi interessa questo, quando uno spettacolo diventa un film».
Come per Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, il primo film – tra teatro e cinema – delle Albe.
«Esattamente. O come per Paolo Rosa di Studio Azzurro, un videomaker che ha fatto un film con Sandro Lombardi. O Mario Martone, che ha chiamato Carlo Cecchi come protagonista per Morte di un matematico napoletano. Fu un grande azzardo, non solo perché era il suo debutto, ma anche perché non fu una cosa totalmente alternativa al teatro: Martone cercava di contaminare i linguaggi».
Questa contaminazione sta avvenendo di più solo per motivi economici – fare film costa sempre meno – o si può parlare di moda culturale?
«Credo che il cinema sia sempre meno confinato. Si possono sperimentare più linguaggi diversi, meno commerciali, proprio perché quando un film esce da logiche di costi alti è più semplice sperimentare. Durante i momenti più avanzati di una cultura è più facile mettersi in connessione e mischiarsi. Più ci si apre meglio è. Bisogna rompere le regole che il cinema italiano aveva in passato: le sue gavette e la sua Cinecittà dove, una volta, nessuno riusciva ad entrare».

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