Michele Placido, il teatro e la bugia dell’amore romantico

Michele Placidojpg01 Il grande artista è regista e interprete di una commedia di Eric-Emmanuel Schmitt

Il suo volto e il suo sguardo di regista hanno segnato il cinema italiano degli ultimi quaranta anni, ma la sua passione è sempre rimasta il teatro. Michele Placido torna sulla scena con Piccoli crimini coniugali di Eric-Emmanuel Schmitt, di cui è regista e interprete accanto a Anna Bonaiuto, al teatro Masini di Faenza dal 5 al 7 gennaio (domenica alle 18 l’incontro a ingresso gratuito con gli artisti alle 18) e a Russi il 22 febbraio.
Cosa l’ha avvicinata a questo testo ironico e dissacrante di Eric-Emmanuel Schmitt?
«Amo Schmitt. È  un autore brillante pur nella sua drammaticità. È un testo che parla di vita coniugale in maniera veritiera e feroce, ma allo stesso tempo con una leggerezza che solo i francesi riescono a trovare. Non è “il drammone”, come spesso capita di vedere in teatro, ma sa trovare una vena drammatica nell’ironia. L’idea di interpretarlo con Anna Boniauto è nata perché entrambi abbiamo le possibilità di attraversare la vita di una coppia di coniugi, per età e anche per esperienza attoriale. I personaggi infatti sono due persone i cui sentimenti si sono usurati nel tempo. Quindi è un modo di ragionare su un tema comune a molti, ma contemporaneamente divertire».

«Il vero piacere
per un attore
è sulle tavole del palcoscenico»

Lo spettacolo parla delle difficoltà di una coppia modello, come a voler sottolineare che anche la coppia più affiatata è formata in realtà da persone estranee l’una all’altra. È questa la lettura che ne voleva darne?
«Esatto. Tutte le coppie dopo qualche decennio di sentimenti vanno in un’altra dimensione. Ognuno negli anni si è allontanato dall’altro senza accorgersene e allora si entra in crisi. “A un matrimonio il mio primo pensiero è chi sarà l’assassino dei due?” scrive Schmitt nel testo. Questa frase mi diverte molto e ci ripenso continuamente. Questa battuta la dice lunga sull’ironia feroce di questo autore che racconta il perduto amore e la menzogna che sta nei grandi sentimenti che ci raccontiamo attraverso un certo tipo di letteratura, di teatro e di cinema. Schmitt si diverte a prendere in giro questa bugia chiamata “amore romantico”».
Il testo di Schmitt è stato scritto poco più di dieci anni fa. Crede che la drammaturgia contemporanea abbia spunti interessanti?
«Alcuni autori contemporanei, soprattutto anglosassoni e francesi, si divertono a pungere i luoghi comuni della borghesia in particolare sui sentimenti. Forse loro sono più illuminati in senso intellettuale rispetto a noi italiani, che abbiamo sempre su di noi il peso della cultura cattolica, che non ci rende capaci di essere così oltraggiosi verso i “buoni sentimenti”».
Il teatro per molti attori è una palestra molto faticosa, che viene dimenticata dopo il successo cinematografico. Cos’è il teatro per lei? Perché a più di settanta anni ancora è così legato a questo lavoro?
«Io sono nato in teatro. I miei primi otto anni di attore sono stati esclusivamente di teatro, poi ho iniziato con il cinema e la televisione, ma non ho mai smesso. L’amore per il teatro è un amore che resta per tutta la vita. Anche se hai avuto successo nel cinema e nella televisione, poi hai sempre il desiderio di tornare in teatro. Il vero piacere per un attore è sulle tavole del palcoscenico.

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Michele Placido con Anna Bonaiuto, i due protagonisti di “Piccoli crimini coniugali”

Lei ha lavorato con grandissimi registi teatrali come Strehler, Orazio Costa, Patroni Griffi, Luca Ronconi. Quando ha iniziato a lavorare come regista a chi ha rubato di più?
«Sul gioco attoriale sicuramente da Strehler. Con tutti il rispetto per Luca Ronconi, che mi ha dato tanto, ma con Strehler ho capito cos’è essere a tu per tu con un regista. Lo scontro tra chi guida la messa in scena e l’attore è fondamentale. È un corpo a corpo quotidiano. Strehler, anche se era di grande cultura, era più viscerale che intellettuale. Andava diretto allo stomaco di chi stava in scena nei suoi spettacoli. Gli venivano idee molto colte però quando affrontava certi testi come Shakespeare, emergeva in lui una animalità teatrale che Ronconi non aveva. Luca era più freddo… non freddo, meglio dire più intellettuale».

«Lo scontro tra chi guida
la messa in scena e l’attore
è fondamentale. È un corpo
a corpo quotidiano»

Anche nel cinema ha lavorato con tutti i più grandi: Comencini, Monicelli, Bellocchio, Lina Wertmüller, Moretti, Tornatore. Quali di questi l’ha segnata di più?
«Bellocchio! Mi ha fatto capire che il mestiere di regista non è solo il piacere di una storia o delle immagini, ma qualcosa di più. È un atto politico, nel senso più nobile.  È un momento in cui si crea cultura per il popolo. E ci tengo a dire “popolo” proprio per usare un termine caduto in disuso».
Parlando di “popolo”. L’impegno civile è stato il fil rouge in molti suoi lavori…
«Fare bene e con onestà il proprio lavoro è già un atto politico. Fare bene le cose, avere rispetto per il proprio pubblico è un atto politico. Stare al servizio della cultura sapendo che i film che si fanno entrano a far parte del bagaglio di un popolo, e non è solo un intrattenimento. Per politico non intendo un atto ideologico, ma ideale».
Crede che le giovani generazioni sentano il peso di questo atto politico della regia?
«Se un regista è appassionato di questo lavoro lo fa con coscienza. Non trovo ci siano divergenze  tra le nuove generazioni e la mia. C’è chi lavora con impegno e crede nel valore del proprio lavoro e questo è più che sufficiente. Questa serietà e rigore è un atteggiamento che trovo anche nei più giovani».
Che consiglio darebbe a un giovane che sta intraprendendo ora un percorso di attore o di regista?
«Oggi un giovane non dovrebbe definirsi attore o regista, ma dovrebbe pensare in termini di passione. Per fare questo lavoro ci vuole una grande sete di cultura. E la cultura non ha specializzazioni. Bisogna conoscere la musica, il cinema, la pittura, leggere i giornali ed essere informati su quello che accade nel mondo. È tutto collegato. Non bisogna concentrarsi solo sul palcoscenico o dietro la macchina da presa, altrimenti si riducono i propri orizzonti. Bisogna essere preparati a tutto campo. Partecipare alla vita civile, seguire le vicende politiche. Il rischio altrimenti è essere esclusivamente “artisti” e pensare all’arte come la sublimazione della vita reale, come diceva Pirandello».

«Non voglio più
essere protagonista
Recitare al cinema
mi ha stancato»

A ottobre è uscita Suburra, la serie tv sugli scandali di Roma Capitale da lei diretta. Nel 1984 lei divenne famoso a livello internazionale interpretando la serie La piovra incentrata anch’essa sul crimine organizzato. Come è cambiata l’Italia da allora? E il modo di fare serie televisive?
«Un legame c’è. Sono entrambe il racconto di come il bene viene contaminato dal male. Noi ci occupiamo dell’Italia perché viviamo qui, ma lo stesso meccanismo avviene in modo simile in tutto il mondo. Dalla Piovra l’Italia non è cambiata molto. Anche il modo di fare televisione non è diverso. In una cosa però è migliorata la televisione, c’è più libertà. Suburra attraverso una piattaforma come Netflix si esprime in modo più libero. Non solo nella materia, ma anche nella scelta degli attori, che non devono essere per forza famosi, per cui il regista non è costretto a prendere persone imposte dalla rete. Con una produzione Netlix possiamo trattare il legame tra chiesa, politica e malaffare, cosa che in altre televisioni è difficile da affrontare in modo così esplicito».
In una sua recente intervista al “Corriere della Sera” ha dichiarato che il suo «viaggio di attore sta per finire» cosa intendeva? Sta forse pensando di ritirarsi?
«Come attore lavorerò sempre meno al cinema. Non voglio più essere protagonista. Il mito dell’immagine mi ha stancato. Non credo di poter aggiungere altro ai film che ho già interpretato. Farò regie e mi dedicherò al teatro. Adesso sto girando con Piccoli crimini coniugali e sto progettando un nuovo Sei personaggi in cerca di autore di Pirandello per lo Stabile di Catania. Credo che questa, ora debba essere la mia strada. Recitare al cinema mi ha stancato».

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