L’eredità di Martha Graham, rivoluzionaria fondatrice della “modern dance”

In scena al Ravenna Festival, con i fuoriclasse della Company che celebra il suo nome, cinque pezzi fra coreografie storiche e nuove produzioni

Ekstasis

Una scena da “Ekstasis”

Chissà cos’è stato, per Martha Graham, fermare quel suo corpo minuto e potente  per lasciare, a settantasei anni, il palcoscenico. A cosa sarà mai servito il sollievo temporaneo di una bottiglia e un bicchiere vuotati in fretta, dopo aver passato una vita in cui emozione, carne, respiro e pensiero erano fusi in un’unica entità, uno strumento totale che, da anima individuale, sapeva aprire lo sguardo e dare voce al sentire di un’epoca intera. Le sarà bastato immaginare nuove coreografie dopo  aver ridisegnato coi suoi passi la storia della danza? Dopo gli anni ’30, la guerra, la fama e tutto il resto?

Forse è stato l’unico compromesso accettabile contro il fluire di quel tempo che lei stessa aveva liberato con la sua arte onnicomprensiva, tant’è che ancora immaginava il mondo come un palcoscenico nel ‘91, scrivendo coreografie per le Olimpiadi di Barcellona, mentre si spegneva quasi centenaria. Lasciava in eredità più di centottanta coreografie e una delle prime compagnie di danza, la più longeva, monumento vivente al metodo contract and release che aveva affrancato definitivamente i linguaggi della coreutica dai codici già incrinati dalla generazione precedente di artisti sovversivi.

Quella che di nome faceva Duncan, St. Denis e Shawn e aveva aperto la via alla fusione tra movimento e soffio vitale che, per raggiungere il suo primo culmine, aspettava paziente la danza di Martha.

Proprio con la Martha Graham Dance Company (prima Group) fondata nel 1926 la danzatrice di Pittsburg presto divenuta californiana e poi newyorkese, ha dettato le regole della modern stravolgendo “il balletto” sino ad allora conosciuto. Protagonista di un attesissimo tour italiano, ora la compagnia Graham ripropone capolavori storicizzati e produzioni affidate ad artisti che frequentano la destrutturazione di linguaggi del contemporaneo, perseguendo sempre altissimi standard qualitativi. In linea con l’amore per la contaminazione e lo sconfinamento tra generi professati dalla geniale fondatrice, che seppe coinvolgere artisti e musicisti, lasciare il segno su innumerevoli eredi – due tra molti, Merce Cunningham e Twyla Tharp – e nondimeno insegnare l’uso del corpo a celebrità del cinema e della musica come Bette Davis, Liza Minnelli e Gregory Peck.

A Ravenna (il 17 giugno al Pala De André) in scena cinque lavori: lo storico Errand into the Maze (coreografia di Graham e musiche di Menotti) un’opera-monumento del 1947 derivata dal mito di Teseo che attraversa il labirinto per affrontare il Minotauro. La Graham qui era un’Arianna determinata alla conquista della bestia, vestale bianca alle prese con una “divinità” maschile che riportava all’aura dei racconti warburghiani sui rituali dei nativi americani descritti ne Il rituale del serpente: una “danza tribale” fatta di respiri, cadenze e movimenti angolari che ben rendeva la metafora dell’emersione dall’oscurità, come l’attesa del primo fulmine nel cielo che avrebbe riportato la pioggia salvando raccolti e persone. Oggi viene riproposta senza gli elementi classici della produzione – le scenografie vennero danneggiate dall’uragano Sandy – focalizzando lo sguardo sulla pura coreografia.

Lamentation Variations sulle musiche di Mahler, Dowland e Chopin è un’altra rivisitazione: ideata da Janet Eilber e rappresentata per la prima volta a New York nel 2007 come riflessione sui drammatici eventi dell’11 settembre, nasce con il coinvolgimento di tre autori per creare una coreografia interpretabile dall’attuale compagnia, partendo dal solo degli anni ’30 – Lamentation della Graham, su musiche di Zoltàn Kobàly – che la danzatrice interpretava interamente seduta su una panca, unica scenografia un costume tubolare, esprimendo una commovente interiorizzazione del mondo.

In Ekstasis invece è Virginie Mécène a riprendere la omonima coreografia del 1933 – erano questi anni creativamente molto prolifici per la coreografa – che prese il via dalla scoperta di un nuovo movimento del bacino. In un’intervista del 1980, la Graham spiegò che la genesi di questo lavoro derivava da una spinta pelvica che scoprì casualmente e che la portò a sondare un nuova gestualità con cui superò la qualità di movimento più statica e legata alla ritualità indagata sino ad allora.

Diversion of Angels traendo ispirazione da un’opera di Kandinski, attraverso tre coppie di danzatori, parla dei tre aspetti dell’amore – adolescenziale, erotico e infine maturo – e sviluppa l’azione nel giardino immaginario che l’amore crea per se stesso. Concepita in una piovosa estate, la coreografia affronta “the love of life, and the love of love”.

Chiude lo spettacolo Deo – in debutto al Joyce Theatre di New York nell’aprile scorso – nuova produzione firmata da Maxine Doyle e Bobbi Jene Smith, che hanno accettato la non facile sfida di misurarsi con la memoria di un’icona della danza, coreografando per la compagnia che ne perpetua l’aura. E perseguendo la rappresentazione di quel “paesaggio dell’anima” che secondo la fondatrice – lo dirà nell’autobiografia Blood memory – può rivelare la danza: “qualcosa di noi stessi, la meraviglia degli esseri umani”.

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