«Sfruttiamo anche questo momento di chiusura. E prepariamo la festa che seguirà»

Martinelli delle Albe tra inattività forzata e il libro appena tradotto in francese sulla non-scuola: «Lavorando in periferia si scopre che c’è bellezza nell’umanità: un adolescente di Scampia è uguale a quello che vive in centro a Milano»

Martinelli

Marco Martinelli

Un libro appena tradotto in francese porta l’esperienza della non-scuola oltralpe; l’inattività forzata a causa della pandemia; un bilancio sulle scelte del MiBACT di Franceschini: Marco Martinelli, regista e drammaturgo del Teatro delle Albe, ci racconta la sua versione.

Partiamo dal tuo Aristophane dans les banlieues, appena tradotto per Actes Sud. Per un libro, essere tradotto significa adattarsi a un nuovo contesto, come suggerisce il titolo francese che fa riferimento, invece che a Scampia, alle periferie. Voi ne avete viste tante: che cosa c’è nelle periferie?
«C’è quello che c’è nel centro: gli esseri umani coi loro grovigli, le loro anime, i loro desideri. Un adolescente di Scampia o di Kibera è come un adolescente del centro di Roma o di Milano».

Quindi Goffredo Fofi, che diceva che era troppo facile fare la non-scuola coi borghesi di Ravenna e che dovevate andare a Scampia, non aveva ragione?
«Certe volte si ha ragione anche quando si ha torto! In quel suo distinguo, Goffredo ha avuto un’intuizione geniale: spedirci a Scampia ha significato uscire per la prima volta con la non-scuola, che fino a quel momento era rimasta a Ravenna. È ovvio, le differenze ci sono: ma lavorando in periferia si scopre sempre che, pur nelle lancinanti differenze sociali ed economiche, c’è bellezza nell’umanità, e basterebbe poco per rendere questa Terra qualcosa di diverso da un luogo di macelli, scannatoi e diseguaglianze sociali».

Avevate già avuto contatti col contesto francese?
«Sì, abbiamo lavorato a Caen; a Rennes abbiamo portato l’Ubu Buur, con ragazzi che venivano dalle periferie, quasi tutti africani. Ma in Francia, pur trovandoci sempre benissimo, non abbiamo mai avuto “successo”. In Francia c’è Parigi, e poi tutto il resto. I salotti parigini sono potentissimi, non c’è paragone con quelli italiani: noi siamo la nazione delle cento città. Dopo la pubblicazione di questo libro ho fatto diverse interviste con professori e critici francesi, e tutti si stupivano: qua conosciamo Pippo Del Bono, Emma Dante, perché non le Albe? Chiedetelo ai direttori di teatri francesi! Fosse per noi verremmo subito».

Cosa ne pensi della gestione delle chiusure dei teatri operata dal ministero? C’è la sensazione di una grande ingiustizia subita dal mondo della cultura.
«Non lo so. Non riesco a prendere una posizione barricadiera, come invece sento fare da tanti colleghi. Mi sembra una situazione che sfugge al controllo di tutti, in primis degli scienziati. Sono sotto scacco: ci raccontano una cosa e subito dopo la smentiscono. Non sto facendo un discorso contro la scienza in quanto tale; ma l’arroganza di certa scienza è stata messa a dura prova da questa pandemia. È una situazione così incomprensibile che sinceramente non lo so. I teatri erano chiusi anche all’epoca di Shakespeare. Noi stiamo pensando a come preparare la festa quando riapriremo. Il teatro è l’arte dell’assembramento. Questa è l’ora dei libri, di internet, dello studio: leggere di più non farà male, soprattutto ai teatranti».

A me sembra un’anomalia: perché i lavoratori del teatro non stanno protestando come le altre categorie? Sento la voce degli impianti sciistici, dei ristoratori: ma dall’industria culturale, tutto tace; così come mi ha colpito un certo mutismo da parte di Franceschini.
«Bisognerebbe entrare nello specifico. Le case editrici, ad esempio, stanno andando molto bene. Se ci riferiamo al teatro, c’è da dire che è stato salvato dal ministero: a tutti i grandi centri di produzione teatrale sono arrivati i ristori, anche a noi. In questi giorni leggo che sono stati erogati nuovi ristori anche ai singoli attori; magari non riusciranno a coprirli tutti, ma stanno lavorando in questo senso. Mi pare che la risposta ci sia stata; e per quanto il teatro sia un’industria culturale, c’è da considerare che non può essere paragonato, per cifre, al settore del turismo o alla ristorazione. Essendo un ambito più ristretto, credo sia stato coperto meglio dai ristori».

Mi ha colpito una frase di Tiago Rodrigues, regista portoghese, che ha detto che il resto di questa decade sarà “un’esplosione creativa”. Cosa ne pensi?
«Sono in sintonia con questo auspicio. Dopo periodi di guerra e pestilenza, la storia ce l’ha mostrato, questa grande sofferenza produce semi e vitalità. Il troppo benessere, al contrario, anestetizza. Se tutti stiamo bene, a cosa servono l’arte, la riflessione profonda? Pascal diceva che gli uomini hanno sempre bisogno di divertirsi, di di-vertere i loro pensieri perché non riescono a starsene da soli nella propria stanza, e da qui viene la loro infelicità. In questo momento siamo costretti a restare chiusi: proviamo a usare al meglio questo momento. E prepariamo l’esplosione, la festa successiva»

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