«Non è che se uno è diverso è strano. Il surreale e il reale sono la stessa cosa»

Antonio Rezza e Flavia Mastrella sul palco con il loro primo spettacolo, 25 anni dopo: «Non facciamo teatro, facciamo ritmo»

Rezza Mastrella

Chiamo Antonio Rezza mentre ha appena finito le prove. Sento che armeggia con qualcosa, forse si fa il caffé con una moka. Si avvicina e si allontana dalla cornetta, che immagino abbia appoggiato sul tavolo per avere le mani libere. La sua voce va e viene, seguendo i suoi movimenti. Mi fa: «Dicono che sono strano, ma dipende tutto dai punti di vista. Se sapessero come li vedo io gli altri, loro sì che sentirebbero strani». Poi sento Flavia Mastrella. Lei invece è di poche parole, ma ben scandite, con forte accento laziale, di Anzio.

Antonio Rezza e Flavia Mastrella sono due delle voci più originali e irriverenti del teatro italiano. Sempre fuori dal coro hanno costruito negli anni un percorso artistico che ha attraversato teatro, televisione, cinema ed editoria, usando questi mezzi espressivi sempre in maniera inaspettata. Sabato 10 febbraio allo Spazio Tondelli di Riccione portano Pitecus il loro spettacolo insieme, ormai diventato classico.
Pitecus è un vostro classico, sono passati quasi venticinque anni dal suo debutto, cosa vi lega ancora a lui?
Rezza: «Pitecus è stato il nostro primo spettacolo quindi è la cosa che ci è più distante in assoluto, ma allo stesso tempo è anche la nostra stessa avanguardia. Funziona adesso come funzionava allora».
Mastrella: «Pitecus è molto agile, frammentario e incentrato sul quotidiano. Fotofinish, invece, che facciamo a Bologna (il 17 febbraio al Duse, ndr) è stato il primo spettacolo in cui Antonio è uscito dalla macchina di scena che avevamo costruito, è entrato sul palco con tutto il corpo, e ha invaso il teatro coinvolgendo anche platea e pubblico».
Per parlare dei personaggi che interpreti e del tuo modo di recitare si è cita spesso il termine “frenesia” ti ritrovi in questa parola?
R: «Noi non facciamo teatro, facciamo ritmo. La critica la chiama “frenesia”, ma non scende nel dettaglio, perché non fa il lavoro nostro, fa la critica appunto. Se per frenesia si intende un ritmo frenetico che sostiene la scena, mi può andare anche bene. L’importante è non confonderla con una frenesia fine a sé stessa. La critica guarda il comportamento umano non la tecnica».
Col surreale che rapporto avete?
R: «Lo stesso che c’hanno le persone “normali” con la realtà. Non è che se uno è diverso è strano. Per me il surreale e il reale sono la stessa cosa».
M: «I luoghi che creiamo in scena sono altri mondi, che influenzano l’uomo che li vive».
Dopo molti anni ora la critica vi acclama e avete vinto anche molti premi, che però avete accolto dicendo “troppo tardi”. La critica è tardiva?
M: «Sono arrivati tardi, come al solito. L’artista è bello giovane. Però noi li abbiamo accettati tutti. Lavorare nell’ombra a lungo tempo diventa un po’ faticoso… »
R: «Chi scrive le critiche non può sapere come vengono fatte le cose. Io non mi permetterei mai di dire a un altro com’è, o almeno se uno mi dice “io non sono così” me devo fidà… I premi fanno sempre piacere, certo però ce li dovevano dare prima, ma lo sanno, non c’è bisogno di dirglielo».
Si fa fatica ad essere teatranti in Italia oggi?
R: «Ah, lo devi chiedere ai teatranti questo. Noi siamo nei teatri solo perché è un luogo dove arriviamo. Dovremmo stare in gallerie d’arte, ma ci sta poca gente».
M: «Siamo di passaggio. Facciamo film, scriviamo libri, facciamo più cose perché si alimentano l’un l’altra. Anche se sicuramente il teatro è una delle esperienze che abbiamo portato avanti per più tempo».
Come è cambiato in tutto questo tempo il vostro modo di lavorare assieme?
R: «È sempre più difficile. Dopo tutti questi anni è complicato capirsi, la comunicazione diventa più complessa, ma viene superata dalla tecnica, riusciamo a capirci senza parlare, scavalcando il problema. Ad ogni modo ci divertiamo ancora molto, altrimenti non lo faremmo».
M: «Di volta in volta abbiamo cambiato il metodi di affrontare le cose, anche per non annoiarci. Fare sempre alla stessa maniera sarebbe stato veramente noioso. Ogni volta cambiamo lo spazio e le forme, e di conseguenza il contenuto. Anche se parliamo sempre della quotidianità, presa in modo superficiale».
Cosa leggete? Che film amate?
M: «Leggo tanto, ora ho letto un libro di Tommaso Labranca sui curatori d’arte, coi titoli sono negata, li scordo sempre. Poi Auto da Fè di Elias Canetti, e un libro che consiglio sempre a tutti è L’altra parte di Alfred Kubin, un incisore che ha scritto solo un libro in tutta la vita».
R: «Libri ne leggo pochi, perché dei libri belli bisogna fidarsi, non leggerli. So tutto Artaud, ma non l’ho mai letto, perché mi fido di lui, ma non c’è bisogno che controlli. I film ne guardo tanti, mi piacciono quelli che piacciono a tutti: Kubrick, Pasolini, adesso sto guardando i film tratti dai racconti di Edgar Allan Poe fatti da Roger Corman. È un cinema fatto con disinvoltura, fresco. Con Giordano, mio figlio, guardiamo Jacques Tati e ridiamo un sacco. Non mi piacciono i film narrativi e sociali o l’arte che medica le ferite di chi non lo ha mai chiesto».
E voi tornerete a fare video e cinema?
M: «Abbiamo intrapreso dall’anno scorso canali indipendenti per proporre i nostri film in autonomia, abbiamo trovato realtà interessanti e molte persone che hanno voglia di vedere qualcosa di diverso».
R: «Vogliamo farlo a breve, ma siamo intrappolati in teatro. Abbiamo dei film quasi pronti, ma prima dobbiamo liberarci da questa gabbia che ci siamo costruiti da soli».

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