Dai cortei di Bologna alla crisi in Yemen, il viaggio di Tugnoli verso il Pulitzer

Il prestigioso premio per il giornalismo al 40enne fotografo di Sant’Agata sul Santerno per un reportage pubblicato dal Washington Post. Negli ultimi dieci anni ha vissuto tra Kabul e Beirut. Da giovane voleva fare il batterista poi negli anni dell’università ha preso in mano una macchina fotografica e non ha più smesso

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Lorenzo Tugnoli nella redazione del Washington Post

Ai tempi del liceo scientifico a Lugo voleva fare il batterista poi si è iscritto a Fisica ma ha mollato a un esame dalla laurea e ora è il primo italiano a vincere il Pulitzer in 102 anni di storia del prestigioso premio (14 le sezioni nell’edizione 2019). Il 40enne Lorenzo Tugnoli di Sant’Agata sul Santerno (qui il suo profilo Instagram) non sognava di fare il fotografo. È cominciato tutto a Bologna, per caso: le foto scattate senza intenti particolari a una manifestazione studentesca in strada nel periodo universitario, e poi vendute alle redazioni per arrotondare, sono state il primo contatto con il fotogiornalismo. Una ventina di anni dopo si è ritrovato con il microfono in mano davanti a tutta la redazione del Washington Post per brindare al premio. Domani, 7 maggio, alle 18 sarà al Mar di Ravenna in un incontro pubblico dove racconterà la sua esperienza. Qui l’intervista che gli avevamo fatto all’indomani della vittoria del premio.

Tugnoli, il suo reportage in Yemen ha vinto sia il World Press che il Pulitzer. Come è nato?
«È uno dei lavori che in gergo si chiamano “assegnati”, mi è stato richiesto dal Washington Post: sono andato sul posto due volte nel 2018, in totale nove settimane. Non capita spesso che un giornale mandi un fotografo completamente spesato per due mesi e mezzo: il Post era interessato alla crisi umanitaria in Yemen, voleva spingerla sul giornale e ha fatto un grande sforzo. Con me c’era il loro caporedattore al Cairo che segue il Medio Oriente e con cui sono a stretto contatto ormai da qualche anno. In tutto è stata una campagna di stampa di sei mesi, siamo stati in prima pagina una dozzina di volte».

Qual è stata la parte più difficile del lavoro?
«Entrare in Yemen. Ottenere i visti non è stato facile e non lo è ancora: vorrei tornare ma da dicembre ancora non abbiamo ottenuto nulla. Di fatto là decidono i sauditi che cosa succede e non hanno piacere di avere giornalisti che vadano a raccontare la situazione del nord. E quindi è tutto un lavoro di telefonate per cercare un contatto per arrivare al visto. Abbiamo già provato con le ambasciate di diversi Paesi».

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Lorenzo Tugnoli ha vinto il premio Pulitzer per un reportage fotografico pubblicato dal Washington Post

Una volta entrati quant’è il pericolo per un reporter?
«Il rischio non è così alto. Per andare nel nord ti affidi a una sorta di contrabbandiere del posto: sali su una macchina vestito come un locale, ti fai dieci ore di strada sterrata e ti scaricano nelle zone sotto il controllo dei ribelli. Nella peggiore delle ipotesi se ti fermano ai checkpoint ti rimandano indietro e ci devi riprovare».

Dal 2015 vive a Beirut. Come ci è finito da Sant’Agata sul Santerno?
«Nel 2009 e 2010 c’era molto lavoro in Afghanistan per i fotografi e sono andato spesso ma a quel tempo vivevo a Londra e non era la soluzione più comoda allora mi sono spostato a Kabul. Sono rimasto là quattro anni e mezzo e poi ho cominciato a sentire il bisogno di qualcosa di più tranquillo, almeno come base. Beirut è un posto normalissimo, è una città che potrebbe essere in Europa, è comoda per coprire il Medio Oriente ed è a tre ore di volo dall’Italia. Per questo ogni due-tre mesi torno a Lugo dove abita mia mamma».

Una delle foto del reportage in Yemen con cui Lorenzo Tugnoli ha vinto il Pulitzer e il World Press Photo. Una donna sulla porta di una casa senza tetto dove vive con la famiglia dopo la fuga dal paese natale di Al-Jarahi (credit Washington Post/Contrasto)Fare il fotografo non era il suo sogno…
«È vero, ho avuto tante idee su cosa volessi fare da grande ma il fotografo non c’era. Ho fatto il liceo scientifico e a quel tempo volevo fare fare il musicista perché suonavo la batteria. Poi mi ha colpito la scienza e mi sono iscritto a Fisica all’università a Bologna. Mi mancava un esame quando ho cominciato a fare foto: non ho più smesso e non mi sono laureato».

Come è stato l’inizio?
«Un giorno a Bologna durante una manifestazione studentesca in strada ho preso la macchina fotografica e ho cominciato. Poi ho provato a proporle ai giornali, ho cominciato a guadagnare qualcosa, ho conosciuto Massimo Sciacca che è un fotogiornalista molto bravo e con lui ho iniziato la gavetta dalla camera oscura. Sono uno che ha cominciato con la vecchia scuola della pellicola».

Una delle foto del reportage in Yemen con cui Lorenzo Tugnoli ha vinto il Pulitzer e il World Press Photo. Una donna con il velo chiede l'elemosina fuori da un negozio di frutta (credit Washington Post/Contrasto)E ora che con telefonini e social network la fotografia è diventata più accessibile, è meglio o peggio per un reporter professionista?
«Io faccio il fotografo perché mi piace fare foto. Se con i cellulari aumentano le persone che fanno foto io sono felice perché penso che così si stia costruendo una cultura e una conoscenza della grammatica visiva che prima non era presente. Oggi usiamo la fotografia addirittura al posto di prendere appunti, abbiamo una intimità con la fotografia che prima non c’era ed è buono per i fotografi perché c’è bisogno di foto. Il problema ci sarebbe solo se non si capisse la differenza tra un professionista e un dilettante ma questo credo che si capisca bene».

Sarebbe possibile un reportage come il suo in Yemen con un telefonino?
«Sì e qualcuno l’ha fatto: Michael Cristopher Brown ha raccontato la rivoluzione libica per il National Geographic e ora lavora alla Magnum. Oggi un cellulare con una buona risoluzione è molto meglio della migliore macchina di vent’anni fa».

Una delle foto del reportage in Yemen con cui Lorenzo Tugnoli ha vinto il Pulitzer e il World Press Photo. Gli edifici distrutti nella zona di Al-Jahmaliya a Taiz (25 novembre 2018, Washington Post/Contrasto)Qual è stato il primo reportage?
«Se intendiamo quello per cui mi hanno pagato allora nel 2011 a Herat per il Wall Street Journal. Diciamo che ho avuto un po’ di fortuna a cominciare con il giornale con la più grande tiratura al mondo. Ero in Afghanistan ma per i giornali non volevo lavorare perché mi sentivo un artista. Poi un’amica che oggi è a capo dell’ufficio del Wsj a Kabul mi ha proposto di provare. E così ho capito che nel reportage per un quotidiano potevo comunque dare spazio alla mia sensibilità».

La Bassa Romagna da cui viene non offre i contesti del Medio Oriente ma l’ha mai fotografata?
«Ho partecipato al progetto Lugo Land qualche anno fa. Ero stato invitato tra i fotografi emergenti dell’edizione 2008. Ho fatto cinque foto in centro, in bianco-nero che è la mia ossessione».

Il reportage in Yemen però è a colori…
«Il bianco-nero non vende. Sono stato qualche tempo fa in Afghanistan per un lavoro sui profughi e ho scattato in bianco-nero: mi hanno detto “bella, vecchio” ma non se le compra nessuno».

Una delle foto del reportage in Yemen con cui Lorenzo Tugnoli ha vinto il Pulitzer e il World Press Photo. Una bimba di 10 anni visitata in una clinica di Aslam: è denutrita ma non ancora in pericolo di vita e quindi non può essere ricoverata (Dicembre 2018, credit Washington Post/Contrasto)Essere sotto agenzia per un fotografo cosa significa?
«Io sono entrato in Contrasto nel 2017. In buona sostanza il fotografo decide i progetti sui quali vorrebbe lavorare e l’agenzia ti aiuta a venderli. Nel mio caso sono lì anche perché la direttrice è Giulia Tornari che è una photoeditor bravissima. Per me è un modo per imparare. Devo molto a lei per le vittorie dei premi».

Si può fare una stima di quanti scatti ha fatto in carriera? O di quanti giga di foto ha in archivio?
«Difficile. Dallo Yemen sono tornato con 30mila foto. In generale un lavoro equivale a circa diecimila foto scattate e poi si seleziona. Faccio circa 15 lavori all’anno…».

Qual è la foto che manca e che vorrebbe aggiungere?
«Mi vengono in mente tutte le situazioni in Yemen dove è difficile avere accesso. Ecco da lì vorrei fare qualche foto in più».

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