«Con il rap, come per me, aiuto i ragazzi a trovare il loro posto nel mondo»

Parla il ravennate Lanfranco “Moder” Vicari che incontra migliaia di adolescenti con i suoi corsi musicali: «La pandemia li ha disillusi: gli adulti dovrebbero scusarsi»

Lanfranco Moder Vicari

Lanfranco “Moder” Vicari

«Il rap in sé forse non può salvare vite, ma ti insegna che non sarai mai solo e che chiunque impegnandosi può fare qualcosa di importante, indipendentemente dai risultati. Personalmente, poi, la vita il rap me l’ha salvata: mi ha fatto trovare il mio posto nel mondo. Che è quello che cercano disperatamente gli adolescenti di oggi».
E di adolescenti, Moder, ne ha visti un migliaio solo negli ultimi mesi, in incontri nelle scuole e laboratori di rap. Moder è il nome d’arte del rapper ravennate Lanfranco Vicari, direttore artistico del Cisim di Lido Adriano, che contattiamo proprio durante una serie di laboratori che sta tenendo a Matera nell’ambito di un progetto teatrale.

Come sono gli adolescenti di oggi?
«Molto diretti, una generazione intelligente e soprattutto smart, già da prima della pandemia. Mi ricordo come durante un incontro evitassero di fare domande di persona, aspettando invece di farle su Instagram…».

Come li ha cambiati la pandemia?
«Purtroppo ha tolto a questi ragazzi dei lati della vita, che fortunatamente ritrovano proprio in situazioni come i laboratori, che diventano per molti una vera e propria ragione di vita. In questi due anni ci sono ragazzi che non hanno perso una lezione di rap, cascasse il mondo. Hanno un enorme bisogno di socialità».

E che situazione vedi nelle scuole?
«Ho notato una forte disillusione: alcuni mi hanno rivelato come non riescano più a studiare come prima, e non per lo studio in sé, ma perché hanno perso fiducia in generale verso il futuro. Credo che gli adulti dopo questa pandemia debbano scusarsi con queste generazioni per aver portato via loro parti fondamentali della vita. Tutto questo avrà ripercussioni. Ci sono ragazzi spaesati che credevano che gli adulti fossero lì per fare il meglio per loro, dovendo invece constatare un certo fallimento».

Quando hai iniziato e come funzionano i tuoi laboratori di rap? Come procede quello alla scuola media di Cotignola iniziato a marzo?
«Ne faccio da tantissimi anni, dal 2008. L’idea è quella di provare a scrivere delle canzoni insieme ai ragazzi, a partire da loro. Cerco di lavorare molto sull’autobiografia,
sul far dire una cosa che è successa solo a te tentando poi di farla diventare patrimonio comune: è un po’ tirare fuori l’universale dal personale. A Cotignola, per esempio, ho chiesto di raccontare com’è essere adolescente in una piccola cittadina di campagna e i lavori procedono molto bene, i ragazzi sono carichi. In generale, cerco anche di capire come si vedono nel futuro, credo che ci sia bisogno di conoscere questa generazione a cui nessuno sembra invece chiedere niente».

Sei finito anche a insegnare rap in un master all’università di Bologna, al Dams…
«È stato il primo corso italiano universitario sulla scrittura del rap, un’esperienza incredibile. Mi sono focalizzato sulle modifiche e le evoluzioni che ci sono state nella scrittura. È stato il critico Pierfrancesco Pacoda, probabilmente il primo giornalista che si è occupato di rap in Italia, ad aver pensato a me. Ho fatto due lezioni lunghe, da quattro ore, e a maggio parto per un secondo ciclo».

Come è stato il riscontro da parte degli studenti?
«Super! Molto oltre le aspettative. Avevo un po’ di paura perché, nonostante siano cose di cui parlo tutti i giorni, dovevo renderle un po’ accademiche. Mi aspettavo che ad un certo punto sapessero tutto, perché le informazioni girano, invece su moltissime cose mi hanno anche scritto per chiedermi approfondimenti, in un secondo momento».

Cosa rappresenta per te il rap?
«Praticamente tutto, da quando ho 17 anni. Quando ho iniziato a fare rap ho pensato che dovevo vivere di questo e ho avuto la fortuna di poterlo fare, facendo anche tante altre cose che mi piacciono, sempre legate al rap. Ho iniziato a farlo nel 2001, quando non lo considerava nessuno. Ad un certo punto, stanco dei palchi di giovani davanti a vecchi che mangiavano i cappelletti, ho organizzato una festa, che si chiamava “Il Lato Oscuro della Costa”, che poi è diventato il nome del nostro gruppo. Il mio era anche un bisogno di stare in mezzo alla gente. E ora cerco di riportare questo scontro-incontro generazionale nel mio lavoro di tutti i giorni, perché penso sia l’unico modo per vivere. E mi interessa stare nella mia città – Ravenna e in particolare al Cisim di Lido Adriano – e “aiutarla” dove posso, credo che sia l’obbligo di ogni artista provare a farlo».

In febbraio ti sei esibito al teatro Petrella di Longiano, poi in apertura per Murubutu. Come è stato tornare a cantare dal vivo dopo questi anni di pandemia?
«Molto bello e non mi aspettavo tutto l’entusiasmo che c’è stato: al Petrella sono venuti anche da Milano e dalle Marche. Dietro alla musica c’è anche tanto altro, a causa della pandemia molti tecnici hanno cambiato lavoro: tutto il meccanismo che prima davamo per scontato non esisterà esattamente come prima almeno per alcuni anni. C’è un sistema totalmente da ricostruire. Siamo noi che ci dobbiamo reinventare a seconda dei tempi che stiamo vivendo: ho scoperto che anche i social gestiti come vuoi non sono il male, è un modo per stare vicino alle persone e darsi degli appuntamenti».

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