Ma “I nomi epiceni” di Nothomb parla di amore o odio?

Amelie NothombUn gruppo di ragazze e ragazzi del liceo classico Dante Alighieri ci sta aiutando alla realizzazione di ScrittuRa festival (dal 13 al 26 maggio tra Ravenna e Lugo). Due studentesse mi hanno aiutato anche nell’arduo compito di dialogare con Amélie Nothomb ospite dell’anteprima del festival. Si chiamano Gioia Noferini e Martina Dicorato, sono della 3B, classe della prof Monica Fabbri. Ecco come hanno recensito il suo ultimo libro.

«I nomi epiceni, ovvero nomi doppi, sia maschili che femminili, nascondono da una inevitabile ambiguità di fondo che si snoda come un filo invisibile nel corso dell’intera narrazione ed è causa i un’inquietudine costante. Al termine della lettura de “I nomi epiceni” (Voland, traduzione di Isabella Mattanzi), di Amélie Nothomb, si è discordi riguardo all’argomento della storia: il libro parla di amore o di odio?
Gli uni diranno che Claude è pazzo d’amore per Reine, e questo grande amore, quello di una vita intera, lo divora a tal punto che l’imprenditore francese compirà gesti orribili nella speranza di catturare l’attenzione della amata che lo ha abbandonato.
Gli altri vedranno in Claude un orco, un subdolo Barbablù che odia se stesso e di conseguenza tutto ciò che è parte della sua vita: sua moglie e sua figlia.

Non c’è una verità, la storia è ambigua tanto quanto lo sono i personaggi e quanto forse lo è l’autrice stessa. Claude ha due facce, quella di chi odia e l’altra di chi ama, e Dominique è prima ragazza di provincia, fiera della sua indipendenza economica e legata al suo modesto ruolo di impiegata e poi donna dell’alta società parigina, improvvisamente succube di un marito violento nelle parole e insidioso negli stratagemmi per tenerla legata a sé. Il lettore è portato continuamente ad interrogarsi sulla vera natura dei personaggi: innamorati o approfittatori, generosi o pragmatici, buoni o cattivi? Tuttavia non è nell’interesse dell’autrice fornire una visione etica o moralistica della storia.

In questo marasma di sentimenti contrastanti la giovane Épicène rimane statica, un punto fermo nella narrazione come nella vita della mamma Dominique: ragazza equilibrata e talentuosa, rimane immobile nell’odio nei confronti del padre. Épicène è la dualità che genera l’armonia, nata dall’unione di due parti opposte e incomplete, unica figura fedele a se stessa e al pensiero che il lettore si è fatto di lei per tutta la vicenda.
Claude ha odiato prima Dominique e la ha controllata e violentata con finezze psicologiche: “è normale che tu non sia ancora incinta?” le chiede. E lei “messa di fronte al fatto di non essere incinta, provava vergogna” o ancora “lui criticò il suo modo di nutrirsi, le ordinò di mangiare alimenti più ricchi, iniziò a osservarla a tavola con sospetto”. Alla fine Claude rivela “quella donna non è nulla. È soltanto un pedone della mia scacchiera. L’ho scelta perché era sufficientemente bella per portarla in società e complessata il giusto perché potessi farne ciò che volevo.”
Ora odia sua figlia, proiezione di se stesso, e confessa alla sua amata Reine: ‘avevo sempre pensato che mio figlio sarebbe somigliato a te. E non solo invece non ti somigliava, ma somigliava terribilmente a me”.

Insomma, l’ambiguità martellante è il ritratto della complessa psiche di Amélie Nothomb, che affiora attraverso le personalità di tutti i personaggi e che si spinge in lucidissime considerazioni sui sentimenti umani, sulla collera, sulla bellezza e, alla fine, sulla morte che diventa guarigione.

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