lunedì
23 Giugno 2025
Rubrica Controcinema

Il bel neorealsimo magico, Leone d’Argento, che si rifà a Olmi e ai fratelli Taviani

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Vermiglio Cover 1536x864Ho appena visto il bel film Vermiglio di Maura Delpero, fresca vincitrice del Leone D’Argento Gran Premio della Giuria a Venezia. La regista Maura Delpero, italiana di Bolzano per anni vissuta in Argentina, già autrice di documentari, si era fatta notare col suo esordio Maternal del 2019, una storia di ragazze alloggiate in un convento a Buenos Aires, che aveva ricevuto la Menzione Speciale al Festival di Locarno.

Vermiglio è un piccolo comune di montagna nel Trentino, dove è ambientata la storia. È l’inverno del 1944, l’Italia è in guerra. Vermiglio vive i tragici eventi in lontananza, per i tanti uomini del paese al fronte, e di cui non si hanno notizie. Cesare Graziadei è il maestro del paese, sposato con Adele, dedito alla comunità e alla sua numerosa famiglia di otto figli vivi più quelli morti neonati, tra cui le tre figlie Lucia, Ada e la piccola Flavia, e il figlio Dino. Cesare è l’intellettuale del paese, si impegna nel suo lavoro per dare qualcosa di più a tutti, anche insegnando agli analfabeti adulti. Lucia è la figlia maggiore che aiuta la famiglia; Ada vive con dilemma le sue tendenze mistiche e religiose; la piccola Flavia sembra l’unica che potrà proseguire gli studi; Dino è in conflitto col padre, perché non riesce a essere come lui. Un giorno il nipote Attilio torna dalla guerra: è scappato dal fronte e si è salvato grazie a un altro soldato che si rifugia con lui in montagna: Pietro, siciliano, anche lui in fuga. Tra Pietro e Lucia nasce l’amore: ma questo sarà l’inizio di un dramma, proprio quando la guerra sta per finire…

Vermiglio è il paese natale del padre della regista. Un omaggio, certamente, alla memoria delle tradizioni familiari e alle sue radici contadine, nel quale si respirano i riferimenti più immediati al cinema di Ermanno Olmi e dei Fratelli Taviani, un dolce neorealismo magico sempre attento ai tempi e ai gesti dei contadini che vivono in montagna da generazioni, e che da generazioni lottano per esistere e resistere. Nella storia raccontata dalla Delpero, sono essenziali anche tutte le quotidianità e le fatiche patite da uomini e donne; gli eventi raccontati sono “diluiti” dentro l’esistenza collettiva di una piccola comunità e delle sue usanze e credenze, il che, pur allungando forse un po’ troppo il film in questo eccesso di ”documentarismo” e di narrazione antropologica, ne è anche la cifra stilistica più notevole. Già dal cognome del patriarca Graziadei entriamo in una realtà in cui siamo tutti nati “orfani”, e dove l’antico dilemma sociale di genere tra patriarcato e matriarcato si stempera sullo sfondo di una memoria collettiva condivisa e da portare nel ricordo della Storia, e di una natura che nelle quattro stagioni dell’anno compie il suo ciclo.

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