Intercity, un treno “moderno” che attraversa le terre della malinconia (in dialetto)

Baldinidi Matteo Cavezzali

Sperimentale e al tempo stesso arcaica è stata l’opera di Raffaello Baldini. Il suo ultimo componimento Intercity pubblicato da Einaudi nel 2003, appena due anni prima della morte del poeta di Santarcangelo, ne è l’ennesima prova.

Baldini, considerato oggi uno dei più importanti poeti del Novecento italiano, scriveva in una lingua conosciuta a pochi. Un dialetto di paese incomprensibile già a Forlì o a Ravenna, e dimenticato dalle generazioni più giovani. Una lingua per pochi intimi, che raccontava però storie comprensibili a tutti. Vicende del surreale quotidiano in cui tragedia e ironia si mescolano, in cui il passato è lo specchio del futuro, in cui la solitudine è l’unica cosa che tiene compagnia a tutti noi.

Intercity è un treno “moderno” che attraversa le terre della malinconia in cui si possono incontrare persone meravigliose e imbecilli, tutti mescolati gli uni agli altri in un amalgama confuso e indistinto chiamato “la gente”.
C’è la paura di tutte queste persone, questa massa che soffoca, che toglie il respiro, ma allo stesso tempo c’è anche la tristezza di invecchiare da soli. In La mattina Baldini (che traduce i suoi versi anche in italiano) scrive: «Io, è secondo come mi sveglio, ci sono delle mattine che sto lì a covare nel letto, a occhi chiusi, penso, così, come sognassi delle cose, anche delle belle cose, che mi potevano succedere e non sono successe».
Non si può aggiungere altro. Io, come molti della mia generazione, non riesco bene a leggere il dialetto scritto – anche se lo capisco ascoltandolo – per questo le poesie preferisco leggerle prima in italiano per poi amarle nella loro lingua madre. Mi piace riscoprire parole dal suono agrodolce, come mateìna, mattina, bès, il bacio, quello un po’ impacciato di una generazione che non aveva la parola “amore”, ma solo “at voi bèn”. Oppure i modi di dire come “a sérmi una fiumèna” per sottolineare che si era tanti, forse troppi. Perché bene si sta in due, al massimo in tre, dopo si è troppi, non ci si riesce a guardare negli occhi.

A tratti le sue parole paiono profetiche, come quando in Quaiéun, “Coglioni”, dice: «Hai ragione, sono coglioni, però. Però? Cosa si può fare? sono tanti, comandano loro». A cui fa eco Quaiéun (2), un invito a fare dell’autoironia la chiave per leggere il mondo. La poesia si conclude infatti con una domanda: «non è che i quaiéun, i coglioni, siamo proprio noi?»

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