“L’è méi avé da dì, che l’avé dét”. Quando il Super Io parlava in romagnolo Seguici su Telegram e resta aggiornato Oggi facciamo un po’ di teoria. Ma una teoria utile, di quelle che possiamo poi riscontrare nella vita di ognuno di noi, tutti i giorni. Arriverò ad accennare i meccanismi di difesa psicologici. Ma per capire cosa essi siano, ci serve una premessa. In modo semplificato, partiamo dal fatto che Freud riteneva che nella nostra mente ci fosse un’area nella quale la persona contenesse le regole. Le regole per cosa fare, ma soprattutto per cosa non fare. Freud si riferiva a quei valori assoluti che apprendiamo nel corso della vita. Specie all’inizio. Quando i genitori, la scuola, la cultura dell’ambiente al quale aderiamo, ci trasmettono i loro principi. Per capirci, tra queste regole fondamentali, ci sono il “non uccidere”, il “non rubare”, il “non aggredire”, il “non avere condotte che portino ed essere svalutati”, il “non infrangere le leggi”, il “non dire senza freni quello che si pensa”, il “non trasgredire i comandamenti”, per chi ha avuto un’educazione cattolica; e tanti altri. Ognuno di noi, riflettendoci, può individuare, oltre a quelli più universali, quali gli sono più propri e specifici. Può riconoscere i limiti che gli sono stati trasmessi dagli educatori. I limiti che ha acquisito attraverso l’ambiente in cui ha vissuto, e di cui ha respirato l’aria culturale. Gli esempi delle norme che ho elencato partono tutti con il “non”. Il motivo è che molto spesso sono tutti inviti, anzi imposizioni a trattenersi. Più che a dirci cosa possiamo fare, esse ci impongono ciò che non va fatto. Invitano alla censura. In alcuni casi, questi limiti sono opportuni e conservativi, sia per noi stessi che per gli altri. Come nell’esempio del “non uccidere”. Invece, per molte altre restrizioni non c’è una funzione pragmatica, ma esse sono solo retaggi culturali, spesso bigotti. Come il “È meglio avere da dire, che aver detto”. Anzi vado ed esprimere questo modo di dire in dialetto romagnolo, perché è da lì che arriva. Quindi: “L’è méi avé da dì, che l’avé dét”. Era un’espressione in voga al tempo dei nostri nonni, forse più usata in campagna che in città. L’invito di questa frase mirava al trattenersi, a non comunicare esplicitamente il proprio pensiero, a non manifestare la propria posizione. “Avere da dire”, stava a significare pure “entrare in polemica” con l’interlocutore, poteva sottendere un confronto che sarebbe potuto diventare acceso. In ogni caso implicava una propria palese esposizione. Per fortuna, oggigiorno questo arcaico orientamento all’autocensura è stato sostituito con l’invito all’assertività. Ovvero quella “peculiare capacità comunicativa che consente alle persone di far valere i propri punti di vista, I propri bisogni e le proprie esigenze nel rispetto delle esigenze e dei diritti altrui”. Il progresso, oltre alla tecnologia, coinvolge anche la cultura ed il costume sociale, spesso alleggerendolo dalle sue connotazioni più bigotte e bacchettone. Tornando al concetto, questo spazio mentale, dalle maglie più o meno strette, contenitore delle regole che impongono cosa fare e cosa non, Freud lo aveva definito “Super io”. Una denominazione che sottolinea la forza di questa istanza psichica. Di fatto però, sempre Freud, aveva riconosciuto anche un’altra area, sempre intesa in senso figurato, della nostra mente dove risiedono gli istinti, le pulsioni e i desideri. Un’area ancora più grande di quella perimetrata dal “Super io”. Anche di questa siamo in gran parte inconsapevoli. Alcuni desideri e pulsioni ci sono chiari, ma tanti non arrivano ad esserlo perchè vengono respinti dalle norme intransigenti del “Super Io”, che opera una censura. Allora cosa succede? Succede che nella vita di tutti i giorni cerchiamo di trovare una mediazione. Da quando ci alziamo a quando andiamo a dormire è un continuo mediare, spesso inconsapevole. Tentiamo di coniugare i nostri desideri, le nostre pulsioni con le censure e le regole morali imposte dal “Super io”. Il nostro “Io” ne è il risultato. “L’io” è la struttura psichica che opera per gestire il nostro rapporto con la realtà e utilizza i cosiddetti “meccanismi di difesa”. Sono molti, e parecchio variegati. Li approfondiremo in un articolo successivo, dove cercheremo pure di distinguere tra quelli che si possono esprimere in dialetto romagnolo, riferiti ad un tempo del passato, da quelli più attuali. Total1 0 1 0 Seguici su Telegram e resta aggiornato leggi gli altri post di: Lo sguardo dello psicologo