L’obbligo di stare a casa ha destrutturato non solo la nostra routine, ha colpito anche le sue funzioni difensive Seguici su Telegram e resta aggiornato Il Coronavirus ha condizionato la vita personale e professionale di tutti. Io, come psicologo e psicoterapeuta continuo a lavorare, ma le abituali sedute in studio sono oggi prevalentemente sostituite con sedute da remoto realizzate attraverso il telefono oppure con le videochiamate. Questa pandemia ci ha spiazzati, ci obbligati a trovare nuove soluzioni per fronteggiare l’emergenza. Il nuovo setting, cioè la terapia via Skype anziché, di persona in studio, è «una soluzione pragmatica che ricorda il trasferirsi temporaneamente in una tenda da campo durante un periodo di scosse sismiche in cui si debba stare per qualche tempo fuori di casa: una soluzione non ideale, certamente, ma pur sempre vivibile, a patto di non darla per scontata e di esplorarne insieme le condizioni e gli sviluppi interni, per non negarli», citando lo psicoanalista Stefano Bolognini. Le sedute tramite telechiamata, ovviamente implicano di entrare nello spazio privato delle persone, nelle loro case. Spesso le sedute iniziano con un «Buongiorno Dottore, sono qui anche oggi, sono sempre qui…». Una cosa che ho notato in diverse persone è come l’obbligo di restare nella propria abitazione, di rinunciare a quella che era le propria routine, destrutturi non sono la routine stessa ma pure le funzioni difensive che essa aveva. Mi spiego. Un paziente mi dice che sta valutando, quando sarà finita la quarantena, di smettere, possibilità permettendo, il proprio lavoro. Riconosce con chiarezza, anzi forse amplifica proprio, gli aspetti peggiori della sua professione, quelli che lo frustrano e lo rendono insoddisfatto. Risvolti che c’erano anche prima ma che la ruotine teneva più nascosti: andava in palestra, si trovava per l’aperitivo, cenava spesso con gli amici, a meta mattina scendeva al bar per un caffè, tutte cose belle, piacevoli in sé ma che avevano anche la funzione di tenere celato un fronte di insoddisfazioni, paure, malinconie che non si voleva vedere, e che oggi il silenzio delle mura di casa restituisce. Un altro paziente è un tecnico di professione. Stacanovista, sempre impegnato con il proprio lavoro. Spesso anche al sabato e alla domenica. Il decreto sul Coronavirus gli ha imposto ora di fermarsi, invitandolo alla prudenza, rivelandogli la sua non indispensabilità. È rimasto quanto meno spiazzato. Mi dice. «Prima mi sentivo Superman. Con il mio intervento andavo a salvare il tal cliente, ora mi sento solo un tecnico sventurato che ha un cliente sventurato a cui si è manifestato un problema sventurato». Ne abbiamo parlato. Siamo entrambi consapevoli che il lavoro serviva anche per sentirsi efficace, indispensabile, celando la paura di non valere abbastanza, di non essere brillante, ma, sotto sotto, sventurato. Destabilizza certo riconoscersi così, ma questa consapevolezza raggiunta permetterà anche di riprendere a lavorare in modo nuovo, con l’auspicio di attingere di più pure in altri aspetti della proprio esistenza. Succede anche questo in tempi di Coronavirus. Total0 0 0 0 Seguici su Telegram e resta aggiornato leggi gli altri post di: Lo sguardo dello psicologo