“Il rifiuto del maestro”: 50 anni per dipingere una tela Seguici su Telegram e resta aggiornato Giacomina Tarlazzi ha dipinto questo quadro nel 1986, quando aveva esattamente sessanta anni. Lo ha intitolato “Il rifiuto del maestro”. Partiamo dal principio. Negli anni trenta del secolo scorso, a Cotignola, in provincia di Ravenna, c’era il Professor Luigi Varoli. Un pittore poliedrico responsabile della locale scuola “Arti e mestieri”. Era un uomo aggregante, generoso. Accoglieva i ragazzi e insegnava loro a disegnare e dipingere. L’ammirazione nei suoi riguardi si è poi rafforzata in seguito, tanto che oggi esiste un museo a lui dedicato. La ragione di tanta gloria è da individuare rispetto a quanto fece durante la seconda guerra mondiale, quando diede asilo a diverse persone perseguitate. Un uomo di spessore e ammirevole. Ma non per tutti, Giacomina ne ebbe un altro ricordo. Poco più che bambina, già appassionata al disegno, chiese a Varoli di poter frequentare la sua scuola ma lui la rifiutò. Si portò addosso, tacitamente, quel rifiuto per decenni. Ne rimase condizionata, fino a quando non riuscì a ritrarlo in questo quadro. Per la cronaca, pare che Varoli la cacciò per rivalersi contro la madre di Giacomina che non voleva essere da lui ritratta. Una ripicca. E qui vediamo come in ogni uomo, si siano aspetti contraddittori. Nobili e meno nobili. Ma stiamo sul quadro. E di conseguenza sulla storia della sua autrice. Dopo il rifiuto abbandonò la pittura. Mise a tacere la propria passione per circa quarant’anni, quando, grazie ad un’altra persona, una donna, che le dette coraggio e fiducia, a 45 anni riuscì ad assecondare il proprio desiderio. Così come Varoli le aveva annientato lo slancio artistico, l’amica ebbe una funzione riparatrice, tant’è che Giacomina scrisse «Io ho iniziato a dipingere nell’anno 1971, la cara Silvia mi disse i colori che dovevo prendere, l’olio di lino… io ero all’oscuro di tutto, non avevo un’idea della tecnica». Ma una ferita, con tutte le titubanze che si porta dietro, si cancella con fatica, tant’è che non si concesse subito di esprimere con la propria soggettività. «In principio mi limitavo a copiare. Non avevo infatti idea di cosa fare e come muovermi». Riproduceva i paesaggi che trovava sulle scatole dei cioccolatini. Ci sono voluti altri anni per fare le sue belle nevicate e i paesaggi campestri. Quindici invece, sono stati gli anni necessari per arrivare a dipingere “Il rifiuto del maestro”. Una sorta di catarsi. Il quadro è rilevante sia perché è la rappresentazione grafica del momento traumatico, ma soprattutto in considerazione del periodo di latenza, cioè il tempo intercorso tra l’accadimento e quando è riuscita a realizzarlo. Ci sono voluti quasi cinquant’anni per dipingere questa tela. Una storia questa di cui tener memoria, utile a tutti, ma in particolare a chi fa l’insegnante di mestiere; o a chi accusa qualcuno che ha subito un trauma, o una violenza, di manifestarsi troppo tardi; o a chi, semplicemente, la fa troppo facile in generale. Total0 0 0 0 Seguici su Telegram e resta aggiornato leggi gli altri post di: Lo sguardo dello psicologo