Se il teatro in dialetto ricontatta le nostre memorie felici Seguici su Telegram e resta aggiornato Siamo in una sera di fine estate di qualche tempo fa. Ero in casa, un po’ triste e malinconico. Non sarei uscito. Probabilmente avrei guardato la televisione senza particolare interesse. Si stava facendo ora di cena. Ero a casa dei miei. «Vieni con noi. Vieni a mangiare alla festa». «Non startene qui da solo». Mi dissero. Andai con loro alla sagra del paese. Ci sedemmo allo stand gastronomico e ordinammo da mangiare. Attorno a noi c’erano isole di suoni e rumori. Da una parte un signore cantava al suo piano bar. Davanti a lui le persone ai tavolini bevevano il caffè. Da una piccola giostra arrivava discomusic mescolata a schiamazzi. Comunque, probabilmente, era lo stand gastronomico quello che faceva più fracasso di tutti. Il rumore dei piatti, delle stoviglie rovesciate sui vassoi, si sommava alle risate della gente. Da pochi minuti si era aggiunta un’ulteriore area di socialità. Non mi era chiaro cosa fosse. Più che altro scorgevo una platea di persone sedute. Non vedevo cosa, né chi ci fosse davanti a loro. Quegli spettatori mi attirarono l’attenzione. Vedevo i capelli bianchi di alcune donne contornati dalla luce. Dopo poco, mi avviai in quella direzione. Tra il pubblico, un signore si stava alzando. Presi il suo posto tra le prime file. Sul palco si esibivano Gianni e Paolo Parmiani. Due fratelli attori, vivaci ed accattivanti. Uno dei due parlava in dialetto. Era il protagonista, il comico. L’altro lo sosteneva sapientemente come spalla. Mi sedetti e mi lasciai portare. Quello che parlava in dialetto era vestito da cicloamatore. I pantaloncini attillati, una maglietta con scritto “Società Sportiva GRATTACOPPA”, sopra una gran pancia. Raccontava delle sue gesta, di quando insieme a “Pavlì é barbir (Paolino il barbiere)” andavano, in una serrata gara, sulle nostre colline, scalando rapporti nel cambio delle biciclette. In una lotta netta, ma all’insegna dell’autoironia e soprattutto di profondi, anche se pudicamente nascosti, sentimenti di solidarietà e vicinanza. Mi divertii. Il Cicloturista disse che, appena partito, si era subito fermato a “magné una brasultèna ad pigra (a mangiare una braciolina di pecora)” all’Osteria del Pedalatore, ma fu l’insieme del pezzo teatrale, con quella musicalità dialettale, con il suo clima sociale e culturale, a darmi sollievo. A differenza delle altre aree rumorose alla festa, quella era l’isola dei suoni felici. Dei suoni antichi e familiari. I loro dialoghi mi rimandavano all’infanzia. A scene di vita quotidiana, al modo di fare dei miei nonni, a frangenti che la mia memoria ha raccolto e ne è propria ad un livello remoto, forse neppure del tutto cosciente e consapevole, ma fortemente radicato in me. La loro bagarre mi riportò ad altre immagini della mia primissima infanzia. Al ricordo più remoto che ho. La prima memoria della mia vita: sempre in campagna, quando cercavo di pedalare senza rotelline davanti a casa fino alla sedia dove era seduto mio nonno. Il teatro in dialetto, specie quello ben fatto, come nel caso dei Fratelli Parmiani, si muove a mio avviso su un doppio binario. Da una parte c’è il presente, quello che si vede in scena, efficace, divertente e riflessivo. Il secondo è un binario rievocativo, di sana ricongiunzione, almeno per chi ha questo retroterra come me, con le nostre memorie più antiche. Determina una sorta di riattualizzazione di quello che è stato. E così, i volti delle persone, anche di quelle che non ci sono più, ritornano ad essere quelli di una volta, non segnati dalle rughe, i loro corpi non sono rimpiccioliti e ricurvi dalla vecchiaia come negli ultimi loro tempi, ma ritornano ad essere quelli vivaci delle foto in bianco e nero degli anni felici. Total0 0 0 0 Seguici su Telegram e resta aggiornato leggi gli altri post di: Lo sguardo dello psicologo