Guardami, la lezione di Jennifer Egan

Tra le novità del festival ScrittuRa che spiccano quest’anno c’è l’idea delle “lezioni” su alcuni big mondiali in chiave critica. Tra questi,  in mezzo fra David Foster Wallace e Majakovskj, c’è anche Jennifer Egan (ne parlerà Giulio D’Antona alle 18.30 del 20 maggio).
Ora, Jennifer Egan è l’autrice di quell’indiscusso capolavoro che è Il tempo è un bastardo. Ma anche di Guardami (Minimum Fax,  traduzione di Matteo Colombo e Martina Testa), un romanzo del 2001 (uscito in Italia nel 2012) forse meno formalmente perfetto ma comunque da incorniciare. Anche in questo caso il nodo centrale, o meglio uno dei nodi centrali intrecciati ad altri, è quello del tempo, delle occasioni colte e mancate, dello iato tra attese e realizzazioni che va di pari passo con il rapporto tra finzione e reale, tra materiale e immateriale, tra cinismo e sentimento, tra centro (New York) e periferia (Rockford), entrando nel sostrato profondo dell’America. Insomma, un libro immenso dove ci troviamo a vivere la vita di una modella che in seguito a uno spaventoso incidente diventa irriconoscibile ai più e si trova costretta a rifarsi una vita, ma attenzione la vita di una che era rimasta comunque fuori dalla “stanza degli specchi”. E poi c’è una madre di famiglia   che non ha lasciato Rockford, un uomo bellissimo che a 23 anni ha fatto una cosa “da matto” che l’ha marchiato a vita e ora ricostruisce ossessivamente la storia di una città che come tante città di quello sterminato paese che sono gli Usa non va più indietro di due secoli ed è punteggiata da modificazioni urbanistiche che si modellavano sulle innovazioni tecnologiche e industriali che si succedevano. E poi c’è una ragazzina con lo stesso nome della modella. E c’è una giornalista e c’è internet e il progetto “Persone comuni” e c’è un barbone e c’è pure un investigatore privato sulle tracce di un personaggio quanto mai misterioso. Perché Guardami è un romanzo che è anche una storia di formazione ed è anche un po’ “detective story” ed è anche strumento di scoperta della realtà e indagine psicologica e riflessione sul senso dell’apparire e sul ruolo dell’essere. Il tutto senza mai, per un solo istante, perdere il gusto per la narrazione, per permettere a chi legge di “vivevere le vite degli altri” spinti non solo dalla costruzione di personaggi sorpredenti eppure credibili (farci immedesimare con una modella semifallita pervasa di cinismo e che mente come respira non è roba da tutti, diciamolo), da un uso distillato e sapiente della suspense e anche di veri e propri colpi di scena. Con una sorta di dichiarazione tra poetica e filosofia a pagina 352 da scolpire «Ah, il narratore esterno onniscente. Magari potessimo crederci ancora».

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