Il capolavoro sul mondo (non) a venire

Una scrittura, una trama, un protagonista calato nella contemporaneità a cui si augura di diventare un classico. Ne Nel mondo a venire, Ben Lerner mette in fila un personaggio che oscilla tra l’io narrante e la terza persona, portando sulla pagina una serie di avvenimenti, ma anche riflessioni, timori, ragionamenti, nevrosi di un trentenne newyorkese democratico intellettuale d’oggi. Chiaro che la cifra dell’autoironia non può essere assente, ma – e qui sta uno dei tanti pregi del romanzo – è sfumata, mai invadente, non calcata, divertente e mai fine a se stessa. Le situazioni che si susseguono sono quelle che l’autore ci induce a credere siano state totalmente reali e per noi in ogni caso lo diventano e hanno molto a che fare con il rapporto con l’altro, con la responsabilità, con la paternità. Tra i fili centrali c’è quello di un’idea  di paternità davvero lontana dal familiy day: la sua amica 37enne gli chiede di donarle lo sperma perché vuole diventare madre di un figlio suo. E a quel punto la domanda su che tipo di padre, con quale grado di coinvolgimento (tutto da decidere, tutto da scoprire), potrà essere, che tipo di relazione c’è con questa donna con cui condivide tutto eccetto il letto, è un modo per porre domande sull’essere genitori tutti, sul senso di diventarlo. Ma non c’è solo questo, ci sono pagine indimenticabili sulla malattia, sulla scrittura, sul rapporto tra l’arte e il mercato dell’arte, ci sono scene imperdibili che sono camei perfettamente innestati nella narrazione, come quella al museo in cui il protagonista si scopre in preda al panico all’idea di essere responsabile di un bambino di dieci anni che pure conosce e a cui vuole bene, ma anche il momento in cui ospita nel suo appartamento di Brooklyn un militante di Occupy Wall Street o scopre, mentre imbusta avocado nella cooperativa di consumo (una coop di consumatori nel mezzo di Brooklyn dove tutti i soci prestano ore lavoro per tenere bassi i prezzi, dimenticate dunque Coop Adriatica), la storia di una donna che apprende da adulta di non avere quel sangue arabo che pensava di avere nelle vene e in virtù del quale aveva iniziato una battaglia sui diritti di quei popoli.
Un modo elegante, appassionante e sorprendente per affrontae un tema come quello mai abbastanza approfondito dell’identità del singolo rispetto alla complessità del mondo. Un capolavoro sul mondo non a venire, ma su quello che qui già è, dove per qui si intende New York che torna a rifulgere come luogo della complessità, come metropoli intellettuale lontana dai cliché della grande mela, una New York raccontata per due volte in balia di eventi climatici che la costringono a previsioni di scenari apocalittici e dunque raccontata anche nella sua fragilità.
Il tutto nella traduzione impeccabile dell’ottima Martina Testa, per le edizioni Sellerio.

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