Tra Seneca, Carrère e il Regno di Gesù

Un po’ come Limonov, il nuovo libro di Emmnanuel Carrère, il Regno (Adelphi, traduzione di Francesco Bergamasco), è un altro libro fatto di narrazione, di “macchine da presa” in primo piano come scelta poetica  dichiarata, di sfondi storici perfettamente documentati in cui si muovono i protagonisti che in questo caso interrogano le radici stesse del cristianesimo. Il Regno infatti è quello di cui parla Gesù  e l’indagine dello scrittore segue quella di Luca, l’ultimo degli evangelisti, e la vita di Paolo. O almeno lo fa dalla seconda parte del libro in poi. La più avvincente, la più interessante. Non sono infatti la sola a dire che la prima parte, quella in cui ci racconta dei suoi anni da cattolico praticante, con l’eccezione di qualche buffo cameo, risulta in realtà piuttosto noiosa. Come altri squarci di libro in cui Carrère ci parla di Carrère, della sua depressione, della sua consapevolezza del proprio plurimo vantaggio (intellettuale, economico e sociale) sugli altri, dell’amore per la moglie. Forse non è quindi il capolavoro che lui dice di sperare che sia, è forse meno formalmente perfetto e compiuto di Limonov, ma certo è un libro che fa capire molto di lui, del suo lavoro e anche dell’oggetto di cui parla. Per i profani (chissà se lo è anche per gli storici) è appassionante il modo in cui racconta l’impero romano tra Nerone e Domiziano, la distruzione di Gerusalemme, le abitudini quotidiane di romani e non. Come in un grande romanzo storico (senza personaggi inventati) ci si appassiona a leggere di come i primi germi del cristianesimo vengono seminati, di come comunità sparse per il Mediterraneo comincino a credere che davvero un uomo sia risorto dopo tre giorni, di come siano nati le fonti che di Gesù raccontano la vita e la morte. Con quel taglio da documentarista-narratore, con quell’abilità nel trovare il dettaglio, con le analogie ironiche tra primi cristiani e comunisti russi, l’affresco che ne esce è per lunghi tratti meraviglioso. Ma il libro non è solo questo. Più volte, tra il racconto di una seduta psicanalitica e di un sessione di meditazione o yoga e una passeggiata con l’amico fraterno, Carrère ribadisce di non essere più credente. Ma insinua comunque il dubbio che forse nell’idea del Regno come quello predicato da Gesù (non dei cieli, si badi bene, ma regno terreno, fatto di accettazione a cui hanno più facilmente accesso poveri e semplici, se non stupidi) ci sia la risposta a un’esigenza profonda dell’uomo (evidentemente in Francia il tema è piuttosto sentito, se si pensa anche all’ultimo Houellebecq). E lo fa  anche mostrandoci l’analogia tra i primi decenni dopo Cristo e i nostri: era quella un’epoca dove grande seguito avevano religioni orientali e la filosofia aveva smesso di indagare il bene pubblico e totale era il ripiegamento sul sé e sull’individuo. Riscoprire (anche) Seneca per credere. Ma se il filosofo latino elargiva certezze, Carrère ci pone piuttosto domande.

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