Quando la cronaca diventa letteratura. La “città” marcescente di Nicola Lagioia

 

La Città Dei Vivi Nicola Lagioia Einaudi CopertinaÈ il racconto di un vuoto, di un abisso che si apre in una città marcescente, invasa da topi, immondizia e gabbiani. Dove la cocaina scorre di notte attraverso locali e festini in casa, dove una generazione di giovani di buona famiglia schifa i mezzi pubblici e si muove in taxi. Dove in borgata si può avere una doppia vita, fidanzato e operaio di giorno, marchettaro di notte.

La città dei vivi di Nicola Lagioia (Einaudi) ricostruisce uno dei più truci omicidi degli ultimi anni, quello del 23enne Luca Varani, per mano di due quasi trentenni di buona famiglia, Manuel Foffo e Marco Prato. Un omicidio tanto efferato perché privo di qualsiasi movente e aggravato dalla crudeltà delle torture che i due, dopo tre giorni di alcol e cocaina, hanno inflitto al ragazzo, attirato nell’appartamento della periferia romana con la promessa di qualche soldo facile.

Perché Lagioia scrive questo libro? Per ragioni personali, ce lo rivela lui stesso. Direttore del Salone del libro, premio Strega con La Ferocia, l’autore si fa letteralmente ossessionare dalla vicenda e inizia un lavoro di indagine che gli richiede anni (l’omicidio Varani risale infatti al marzo del 2016 e Lagioia da subito inizia a occuparsene). Parla allora con i testimoni, gli amici dei responsabili, sfogliando carte giudiziarie in un lavoro di ricostruzione giornalistica che diventa però da subito, fin dalla scelta dell’incipit, letteratura.

Con un gioco sapiente di costruzione delle scene, di squarci personali e di panoramiche sulla città commissariata, Lagioia costruisce innanzitutto un libro avvincente, da cui è impossibile staccarsi pur conoscendone benissimo l’epilogo. A tenere lì è il piacere della lettura, lo spunto offerto dalle tante riflessioni, ma anche la speranza che, alla fine, Lagioia sappia offrire una spiegazione a quel vuoto, riesca a metterci davvero nei panni non tanto della vittima, quanto dei carnefici, ci faccia capire come davvero sia potuta accadere una cosa simile. Come accade spesso nei gialli migliori. Ma Lagioia non ne fa un romanzo, non va a colmare ciò che la cronaca e le testimonianze non spiegano fino in fondo. E forse, solo un romanzo potrebbe fornire le risposte di cui lettori e autore sono inevitabilmente alla ricerca.

Difficile anche farsi convincere che davvero possa esistere una correlazione tra la città e quell’episodio, come sembra volerci suggerire. Poteva succedere altrove? Forse è più facile pensare che non sarebbe potuto succedere in un’altra epoca: Foffo e Prato sembrano figli di questo tempo, un coacervo di ambizioni e fragilità, tensioni verso il futuro e il presente in cui sembrano invischiati. Di certo, quella che ci mostra Lagioia è una Roma  dove tante vite si consumano senza un obbiettivo a cui tendere che non sia fatuo ed evanescente, dell’attimo da vivere, senza proiezioni, senza domande, senza piena consapevolezza, ossessionati dall’apparire. Ma può bastare questo a spiegare cosa accadde in quei tre giorni? Il rapporto tra Foffo e Prato, che pure si conoscevano da poche settimane? Così come non possono bastare le tensioni famigliari, i rapporti con la madre di uno e con il padre dell’altro. E infatti Lagioia non si spinge mai a tanto, mette insieme i puzzle di una storia incredibile eppure vera e lascia a noi il compito di trovare gli incastri. Ma la sensazione, è che comunque, alla fine, per quanto si possano tentare combinazioni, la risposta non si trovi. Né dentro il libro, né forse altrove.

E alla fine, un po’ paradossalmente, dopo centinaia di pagine guidate da un occhio attento e mai giudicante, alla ricerca di un’umanità in ognuno dei protagonisti di quel fatto atroce, ci troviamo al punto di partenza: come è stato possibile? Dobbiamo forse pensare che il male in quanto tale esista davvero?

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