“Tutto è possibile”, una magnifica Strout sul dolore come peccato originale

Strout Tutto È PossibileNell’empireo degli autori che scelgono di raccontare pezzi di mondo e vite normalmente lontane dai riflettori e, a un primo sguardo, prive di particolari tratti distintivi, un posto d’onore, oltre all’acclamato e recentemente scoperto in Italia Kent Haruf, va sicuramente mantenuto per Elizabeth Strout. Libro dopo libro la scrittrice – che vinse il Pulitzer per la narrativa dieci anni fa con il magnifico Olive Kitteridge – sembra dar vita a un’intera comunità di quegli Stati Uniti periferici e insignificanti dove ogni esistenza sembra assimilabile a un’altra. E invece, quando la lente di ingrandimento si avvicina, scopriamo che dentro ogni casa si cela un segreto, un dramma, un groviglio di relazioni che portano gli esseri umani a comportamenti che possono essere brutali, feroci e che nascono da un’umanità ferita che sembra non poter fare a meno di tramandarsi traumi e dolori.

Le storie di questo Tutto è possibile (traduzione di Susanna Basso, Einaudi), seguito ideale di Il mio nome è Lucy Barton sembrano dirci questo: ogni ferita può guarire, ogni cicatrice può rimarginarsi, ma non scomparire. Le famiglie qui diventano luoghi dove i rapporti sono tentacolari, soffocanti, eppure necessari e talvolta salvifici. Ogni personaggio sembra doversi ricostruire a partire da ciò che si è trovato a vivere suo malgrado nella famiglia d’origine, come un peccato originale che si tramanda di generazione in generazione in un’America dove questo tema da sempre attraversa la grande letteratura.
E non a caso il peccato originale si riversa proprio nel rapporto con il sesso e il desiderio e il corpo, un rapporto onnipresente e spesso torbido, negato, foriero di sofferenze. Donne che accumulano peso, forme disfatte con il passare del tempo, ma anche possibilità di rinascita, di ricucire, di ricostruire su fondamenta che restano fallaci. Una profondità che svela l’animo umano fin nelle viscere, fino a rivelarne le piccolezze, le ossessioni, le pochezze.

Dentro e fuori dalle storie, personaggi secondari e spettatori diventano di volta in volta protagonisti osservati dagli altri, in una ricostruzione a incastro che non ha nulla di ammiccante, ma serve a costruire con un sapiente gioco di prospettive tra dentro e fuori, tra superficie e profondità, per inquadrare l’incrocio di una serie di esistenze altrimenti anonime dove la letteratura sembra avere un potere terapeutico, almeno fino a quando non si scopre che la terapeuta, ovvero l’autrice che appare a più riprese, questa volta a confronto con il fratello e la sorella (nel libro precedente era stato il rapporto con la madre centrale nella vicenda), non è affatto “guarita”.

E nonostante il successo, le copie firmate, il riavvicinamento con la madre, nonostante il libro, tornare nella casa della sua infanzia, tornare ai ricordi di quel padre, trovarsi di fronte a quel trauma, le è impossibile. E allora, e anche qui sembra esserci un pezzo di America, spostarsi, andarsene, diventa l’unica via di salvezza possibile. Madri e figli, mariti e mogli, amanti, solitudini e intrecci sotto una cappa di malinconia avvolgente, dialoghi di piccole e grandi cose, gesti quotidiani ed eventi straordinari raccontati con una lingua asciutta ed essenziale per raccontare un pezzo di umanità di questo tempo che offre più di uno spunto per chiedersi cosa possiamo fare della nostra vita, cosa non possiamo evitare, quanti dolori possiamo ereditare, quanti ne possiamo elaborare, quanto sia prezioso ogni effimero momento di vera intesa e intimità tra esseri umani.

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