L’ultima frontiera per la musica colta: quei video pieni zeppi di dannosi cliché

Vanessa Mae

La violinista Vanessa Mae

La musica è un’arte che ha il suo svolgimento nel tempo. La sua stessa scrittura è sostanzialmente l’elaborazione di un piano cartesiano con il tempo sull’asse delle ascisse e la frequenza sull’asse delle ordinate: proprio in funzione di questo sviluppo nella quarta dimensione, la musica è un’arte che, nella sua interezza, non è stato possibile fissare altro che nella memoria umana fino al 1877 quando Edison inventò il fonografo.
Prima di ciò, la musica era solo ascolto diretto, mentre ormai vi è un costante riferimento a ciò che è stato registrato e che è riprodotto in qualsiasi condizione. Si perde, così, l’idea dell’ascolto come unicum, un evento circoscritto nel tempo nel quale si contempla la bellezza di quest’arte. Le strategie di mercato dell’industria del disco, di conseguenza, ormai non puntano più (o non solo) sulla qualità del prodotto, ma anche (e spesso soprattutto) sulla capacità di ingolosire l’utente che compra il materiale sonoro.

A tal riguardo, non è l’udito il primo senso su cui si tenta di far leva, ma la vista, primo incontro con la realtà di ogni essere umano: in virtù di ciò le immagini che corredano i dischi sono tra le più belle, o allusive, che si possano desiderare. Vi è, tuttavia, un’ultima frontiera alla quale la musica colta è arrivata, importandola direttamente dall’industria della musica leggera dove queste regole sono un vero e proprio diktat: il video musicale. Prendendo ad esempio i kilometri di pellicola utilizzati per i video della musica pop, si sono sintetizzati dei linguaggi specifici anche per i video consumati dall’utente di musica colta.

Il primo cliché nel quale ci s’imbatte è, senza dubbio, l’esecuzione estatica, nella quale il musicista è condotto dalla Musa in un mondo onirico nel quale è condannato a vivere anche dopo aver terminato il brano.
Il secondo cliché è la manifestazione di quanto sia divertente suonare a velocità proibite persino sulle autostrade tedesche. Spesso poi, i musicisti vengono ripresi mentre suonano a memoria, anche se lo spartito, molto spesso, si nasconde fuori dalla portata della telecamera.

Ultimo e più problematico tra i cliché è l’utilizzo della donna come oggetto. Aldilà delle drammatiche implicazioni sociali, sull’opportunità di mostrare ettari di muliebre pelle in riferimento ad una canzone che ha il medesimo peso culturale (in questa sede si glissa), tuttavia farlo in relazione ad un quartetto di Haydn, un concerto di Vivaldi o una sonata di Beethoven, non solo non aggiunge nulla né all’esecuzione né alla comprensione dell’opera d’arte, ma svilisce e mortifica il contenuto stesso che è sempre e comunque più elevato di una pulsione pelvica.

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