Il “Serse” firmato Accademia Bizantina a Ravenna: sorprendenti le scene, misurata la regia, azzeccati i cantanti

Serse Accademia Bizantina

Foto A. Anceschi

Nelle descrizioni pervenute ai giorni nostri da parte degli storici greci, Serse I sovrano di Persia appare più crudele che saggio, più spietato che giusto. La storia lo ha ricordato soprattutto per tre tra le battaglie più celebri dell’antichità, quella svolta alle Termopili, quella di Salamina e quella di Platea. In nessuna di queste l’esercito persiano ai suoi ordini uscì a testa alta, anche se nella prima non venne sconfitto.
Erodoto, il primo vero grande storico della storia umana, racconta, inoltre, che Serse dopo essere incorso nel fallimento dell’attraversamento dell’Ellesponto ordinò ai suoi sottoposti di punire i flutti di quello che oggi è chiamato Mar di Marmara con frustate, arrivando inoltre a gettare catene tra le onde.

Proprio questo smacco è diafanamente presente nel Serse composto da Georg Friedrich Händel nel 1738. Nel libretto anonimo, adattato da un precedente lavoro di Silvio Stampiglia, il personaggio eponimo si manifesta in tutto il suo sfrenato egocentrismo tanto da desiderare Romilda la quale lo respinge per amore di Arsamene, fratello del sovrano. Si innesca, perciò, nell’opera del compositore sassone, un gioco di desideri non realizzati che ha fine solo con un fraintendimento che metterà Serse in condizione di pentirsi e accettare l’amore di Amastre, principessa straniera e promessa sposa del re di Persia.

Odeon di questa messa in scena, il 10 gennaio, è stato il teatro Alighieri di Ravenna nel quale le note di Händel hanno potuto librarsi nell’aria romagnola grazie all’esecuzione dell’Accademia Bizantina guidata dal direttore/clavicembalista Ottavio Dantone per la regia di Gabriele Vacis. La prima cosa che ha colpito qualunque spettatore varcasse la soglia ed entrasse nel tempio della musica ravennate è stata, sicuramente, la scenografia, firmata Roberto Tarasco, allestita sul proscenio con una copertura calpestabile del palco che scendeva fino alla platea nella quale si trovava l’orchestra. Questa sorta di piastrellatura ricordava da vicino certe decorazioni da boudoir anni ‘70 che, in fondo, sebbene lontane più di due millenni dalla vicenda storica a cui la trama blandamente si rifà, rendevano giustizia a un intreccio fatto più di pruriti da salotto che di vicende militari.

L’opera si apre con una della più note, celebrate e abusate arie di Händel, Ombra mai fu, emblema della distanza di Serse dalla realtà: proprio in questa direzione si può leggere la scelta registica di avere in scena un bellissimo bonsai verso il quale Serse si rivolge con quest’aria intrisa di devozione. Molto interessante anche la scelta di coprire Serse di abiti femminili, quasi a evocare l’esegesi che la patristica dava del platano, albero sterile ma associato alla figura dello Spirito Santo.

Serse 3Il Serse della brava Arianna Venditelli restituisce questa immagine ambivalente di sovrano pugnace capace però di sdilinquirsi di dolcezza verso l’albero che nella Roma di Marziale è paradigma del lusso e di umiliar sé stesso chiedendo pietà alla promessa sposa. Il (mezzo?) soprano romano si destreggia bene nel ruolo sebbene le profondità vocali del ruolo appaiano forse troppo marcate per la sua splendida voce che, invece, riprende colore e morbidezza nel settentrione della tessitura del sovrano.

Marina De Liso, perfetta nei panni di un Arsamene irato ma assai poco veemente nella dimostrazione del furore, palese più negli sguardi che nei gesti, colpiva per la interessante vocalità.
Romilda, contesa tra il sovrano e il fratello, nell’interpretazione di Monica Piccinini appariva donna risoluta e d’onore, tuttavia la grande sonorità del clavicembalo suonato dal direttore dell’Accademia Bizantina spesso impediva alla platea di godere appieno della voce del soprano.
Bella anche la Amastre di Delphine Galou: sebbene in un registro non congeniale il contralto francese tiene il palco con piglio istrionico, catalizzando le attenzioni non solo di Serse, ma di tutto il teatro.
Molto azzeccata la coppia di bassi Luigi De Donato e Biagio Pizzuti, interpreti rispettivamente di Ariodate ed Elviro, capaci di caratterizzare, con le uniche voci maschili, personaggi rischiosi, che facilmente possono di essere appiattiti o divenire banali macchiette in balìa degli eventi.

La vera sorpresa è certamente la frizzante frivolezza con la quale Francesca Aspromonte circonfonde il personaggio di Atalanta, sfacciata e sfrontata ma capace di gettare le armi sopraggiunta la sconfitta, cercando più in là altre battaglie. La voce della Aspromonte è stata la ciliegina su una torta che, seppur buona, al secondo morso annoia.

L’esecuzione dell’Accademia Bizantina appare un po’ algida nonostante le sprezzature dipinte dal maestro di concerto Alessandro Tampieri e la direzione sicura e di gran piglio di Ottavio Dantone. La regia appare intelligente e misurata, con una grande attenzione per la dimensione affettiva tuttavia le scelte di portare uno stuolo di figuranti in scena e trasformare nel finale il palco in un vivavio si allontanano dal tema dell’opera per abbracciare una necessità visiva avulsa dalla trama. L’abbacinato pubblico ravennate rimane frastornato dall’opera händeliana e solo il decisivo intervento del primo violone, che “discretamente” sbatte la mano sullo strumento, induce il primo applauso.
Certo è che questo piccolo innocente sotterfugio ha risvegliato le coscienze in platea anche se, forse per pudore, le vere dimostrazioni di apprezzamento sono arrivate a opera conclusa, con grandi applausi per tutti gli interpreti.

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