Nel “Rigoletto” della trilogia verdiana ravennate ottime idee sceniche e interpretazioni di valore

Rigoletto Scena Trilogia 2018

Una scena da “Rigoletto” (foto Zani-Casadio)

L’amore di un padre per la figlia: questo, in buona sostanza, è il motore della vendetta che Rigoletto cerca di compiere nei confronti del duca di Mantova, colui che disonora la figlia Gilda. Va detto che attualizzare questa vicenda appare assai complicato soprattutto alla luce del mutato concetto di onore, svuotato di gran parte del suo significato e della sua importanza nella società.
L’unica possibilità di comprenderne l’intreccio è dunque quella di attuare una visione a posteriori, leggendo nell’ormai perduta idea di onore il bisogno di una vendetta non solo desiderata, ma ineluttabilmente necessaria: in quest’ottica ecco la prima dicotomia dell’opera di Giuseppe Verdi, il dissoluto nobile e l’angelica ragazza.
Questo dualismo però non è l’unico presente nel capolavoro verdiano nel quale c’è anche un confronto sulla figura femminile: l’eterea Gilda e la terrena Maddalena, entrambe paradigma di donna innamorata, la prima col cuore, la seconda col ventre. Infine, perché non soffermarsi anche sul bifrontismo di Rigoletto stesso, che vive una parabola tutta sua, da derisore a deriso, all’interno del dramma in musica.

Rigoletto è parte della trilogia popolare verdiana, cioè la prima di opere composte in una manciata di anni che grande fortuna hanno avuto e che hanno definitivamente consacrato il Cigno di Busseto.
La grande fama di quest’opera, unita alla frequenza con la quale la si può ascoltare nei teatri, spesso influisce negativamente sulla sua messa in scena: le invenzioni dei registi non sempre meravigliano in positivo, soprattutto quando la vicenda storica viene volutamente spostata temporalmente da scene e costumi che spesso ne minano la coerenza.
Ciò non è accaduto, per fortuna, nella rappresentazione del 28 novembre al teatro Alighieri di Ravenna, secondo appuntamento per l’opera all’interno della rassegna “Trilogia d’Autunno” del Ravenna Festival. La regia, firmata da Cristina Mazzavillani Muti, respirava aderenza testuale all’idea drammaturgica verdiana.
Tante ottime idee ben trasposte sul palcoscenico: vale la pena ricordare almeno il festino del primo atto che rimanda a un baccanale dal sapore arcadico con tanto di satiro (l’inossidabile Ivan Merlo) e l’incredibile momento, nel secondo atto, quando una Gilda in serata di grazia, con vesti candide illuminate dalla purezza vagheggia alla finestra, nell’oscurità più nera, sul povero Gualtier Maldé, mentre questa bicromia scenica sembra quasi rimandare all’anabasi finale di monteverdiana memoria.
Scelta non in linea con il pensiero verdiano, e in verità assai cruenta, è quella di pugnalare la giovane innamorata in scena facendola brutalmente afferrare da Maddalena, invece di farla entrare nella casa di Sparafucile dentro la quale «tutto resta sepolto nel silenzio e nel buio».
È molto apprezzabile, infine, che le proiezioni siano discrete e limitate e non utilizzate a guisa di scenografia, come oggi va purtroppo molto di moda.

Rigoletto Trilogia 2018

Andrea Borghini nei panni di Rigoletto

Sulle varie prestazioni, è giusto intessere le lodi del Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini” che, grazie al proprio maestro, Martino Faggiani, dimostra di possedere una notevole coesione in tutte le circostanze e valorizza l’opera senza diventarne protagonista non richiesto.
L’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini appare meno svagata delle ultime uscite nonostante l’intonazione non sempre univoca: probabilmente la gioventù paga lo scotto di tenere, per la prima volta, sotto le dita tre opere contemporaneamente.
Il capitolo cantanti si deve aprire con la convincente interpretazione di Andrea Borghini nei panni di Rigoletto che, sebbene manchi un po’ di spessore vocale, rende sfaccettata la figura del buffone contribuendo in massima parte alla sua metamorfosi da disperante a disperato. Il soprano Venera Protasova è semplicemente sublime: il bel fraseggio, la sicurezza negli acuti, la voce morbidissima, la perfetta pronuncia e la grande presenza scenica delineano una Gilda perfetta, giovane, innamorata e candida. La cantante russa è l’esempio supremo di come dovrebbe essere l’artista moderno, in una parola, completo. Bisogna lodare il temerario interprete del Duca di Mantova, Giuseppe Tommaso, che ha inaspettatamente sostituito Giordano Lucà, presente alla prima e costretto in seguito a marcar visita. Il tenore salentino appare a proprio agio nei panni ducali, grazie anche a un invidiabile physique du rôle che giustifica la sua fortuna quale amante, nonostante qualche piccola mancanza dovuta sicuramente all’impossibilità di provare adeguatamente: le celebri arie mettono in luce il bel timbro e nel quartetto del terzo atto non fa danni, chapeau!.
Probabilmente in questo periodo si sta assistendo a una rinata scuola dei bassi che sta rinverdendo i fasti del passato. Protagonista qui a Ravenna è Antonio Di Matteo che delinea il perfetto sicario, Sparafucile, grazie non solo alla grana della sua voce, scura e terribile, ma anche a una misurata gestualità che riduce al minimo i fronzoli, come da bravo uomo di spada. Maddalena è personaggio ostico, preda della fiammeggiante infatuazione per il Duca e proprio ardente è l’interpretazione che ne dà Daniela Pini: la brava cantante rivela non solo l’aspetto lussurioso della donna, ma anche la dimensione più tenera, definendo mille riflessi della personalità della sorella di Sparafucile. Buono l’apporto, infine, di tutti i comprimari.

A suggello di tutto, il direttore. Hossein Pishkar è prodotto del vivaio dell’Italian Opera Academy di Riccardo Muti ed è evidente che la lezione della più grande bacchetta verdiana dei nostri giorni, se non assimilata, in parte è stata compresa. Se si vuole trovare un difetto, probabilmente è da ricercarsi nella scarsa richiesta d’intimità verso l’orchestra, tuttavia con un abito così iridescente anche gli strumentisti più scafati avrebbero avuto qualche difficoltà.

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