«Chi dice che “sono solo parole” non è mai stato vittima di hate speech»

Intervista a Federico Faloppa, docente universitario e autore del Manuale di resistenza agli “odiatori”

RitrattoDa anni Federico Faloppa, docente all’università di Reading in Gran Bretagna, si occupa di formazione contro l’hate speech, ossia contro il discorso d’odio che anche tramite internet sta dilagando. Tiene corsi di formazione su questo tema per Amnesty International, anche a Ravenna dove in passato è stato ospite di Scritture di Frontiera. Recentemente ha pubblicato su questi temi il saggio #Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole, pubblicato da UTET.

Cosa si intende per “discorso d’odio”?
«La domanda è tutt’altro che facile, e richiederebbe una risposta articolata. Di «linguaggi», «discorsi», «parole d’odio» sentiamo parlare ormai quasi tutti i giorni. Tuttavia, se dovessimo dire esattamente che cosa intendiamo con queste espressioni probabilmente ci dovremmo riflettere un po’ su. Non per mancanza di esempi. Ma perché – è il paradosso notato da Andrew Sellars, ricercatore dell’università di Harvard – la gamma di sentimenti, stati d’animo e reazioni che queste locuzioni e le forme con cui si articolano suscitano in ognuna o ognuno di noi è così ampia e diversificata da sfuggire a una definizione sola, capace di accontentare tutte e tutti».

Quanto si sta intensificando questo fenomeno negli ultimi anni?
«Il discorso d’odio non è certo un fenomeno recente, né è nato con i social media, come spesso si tende a pensare. Quando ho cominciato a occuparmi di «razzismo linguistico» e di come possiamo discriminare attreverso il linguaggio studiavo ad esempio la storia di modi di dire ed espressioni ingiuriose verso alcune minoranze diffusi da secoli, non solo in Italia. Tuttavia è indubbio che proprio sui social media si sia assistito e si stia assistendo a una rapida intensificazione del fenomeno, per quantità e… qualità. Questo è dovuto senz’altro – come spiega Giovanni Ziccardi nel suo Odio online (2017) – ad alcune caratteristiche precipue dei social – tra cui la permanenza del messaggio, la sua diffusione potenzialmente incontrollabile, il suo anonimato – che ci permettono di essere incuranti degli effetti su chi lo riceve. Ma è dovuto anche alla scomparsa di modelli virtuosi – si tende a scrivere e parlar male quasi in tutti i contesti, perché tutti fanno così –, alla mancanza di responsabilità politica e civile di chi invece cavalca l’hate speech per gestire il consenso e manipolare l’opinione pubblica, al venir meno del ruolo di watchdog di alcuni corpi intermedi – tra cui i media mainstream – e alla crescente disinformazione, che riduce i fatti a una miriade di punti di vista (e quindi al tutti contro tutti). Ed è dovuto, last but not least, alla scarsa consapevolezza da parte di molti del mezzo linguistico e digitale. Vale sempre l’efficace metafora di Vera Gheno, dei social media come il balcone di casa. «A casa mia faccio ciò che voglio», pensiamo: ma una cosa è denudarsi in cucina, o bestemmiare in bagno, da soli. Un’altra è stare nudi, bestemmiando, sul balcone: in uno spazio che a me sembra casa mia, ma che mi espone anche alla vista di chiunque ci passi davanti, e di cui non posso prevedere o controllare le reazioni. Come, ad esempio, una bella denuncia per atti contrari alla pubblica decenza. Fuor di metafora: sapere ciò che stiamo facendo, e come e dove lo stiamo facendo dovrebbe essere la base: le molte persone hater che, dopo una denuncia, si giustificano dicendo che non sapevano, non avevano idea che quel messaggio sarebbe circolato così tanto, mi fanno pensare che consapevolezza e responsabilità individuali siano concetti tutt’altro che acquisiti, e che educazione linguistica, digitale e ai diritti umani non possano essere disgiunte».

È giusto o sbagliato considerare le parole di odio come anticamera alla violenza fisica?
«Non è facile dimostrare una correlazione diretta, o ancor meno di causa-effetto. Da anni ci sta provando – tramite l’analisi del traffico su Twitter in correlazione a fatti di cronaca – l’associazione Vox Diritti di Milano, che produce le «mappe dell’intolleranza» proprio per geolocalizzare i fenomeni visualizzandone i possibili legami. Cosa utilissima se si vogliono rilevare picchi o sciami d’odio dopo che i fatti sono avvenuti. La predizione però è un altro paio di maniche. E insultare, calunniare, diffamare, minacciare un’altra persona non anticipa necessariamente una violenza fisica. Basti pensare, appunto, alla grande quantità di odio verbale diffuso tramite social media, che – per fortuna – non si traduce in aggressioni fisiche. Tuttavia, due cose si possono dire con un po’ di certezza. Che le aggressioni fisiche – motivate da razzismo, omo-lesbo-transfobia, misoginia, islamofobia, antiziganismo – spesso sono accompagnate da hate speech (con insulti alla persona che si sta per colpire, ad esempio: la violenza fisica è spesso il risultato di un processo di de-umanizzazione dell’altro). E che, comunque, gli effetti della violenza verbale, subìta, possono essere di breve, medio, o lungo periodo. Non lasciano lividi o fratture, ma ferite profonde sul piano psicologico, dalla perdita di autostima allo stress post-traumatico, da un senso di frustrazione a forme depressive. Chi dice che «si tratta solo di parole», evidentemente, non l’ha mai provato davvero, sulla propria pelle – e sulla propria psiche».

Come si può contrastare?
«Per contrastare un fenomeno bisogna conoscerlo bene. Quindi, la prima cosa da fare è avere dati, far emergere i casi, avere consapevolezza di che cosa sia l’hate speech, di come si manifesti e con quali modalità. Se online il fenomeno può essere indagato con una certa ampiezza, infatti, offline resta spesso “sotto i radar”, soprattutto in assenza di testimonianze. Una volta conosciuto, il fenomeno può essere affrontato e contrastato in diversi modi. Se l’hate speech è reato – e spesso lo è, pensiamo alla minaccia o alla diffamazione, appunto – è materia della giurisprudenza. Se si manifesta online bisognerebbe sempre segnalarlo al social media provider e assicurarsi che la segnalazione venga presa in carico, sperando che il contenuto d’odio, soprattutto se rientra in una categoria giuridica, venga rimosso. Se l’hate speech si basa su stereotipi e pregiudizi, occorre adoperarsi alla loro decostruzione, tentando di intervenire alla radice del problema. E in questo sono fondamentali il lavoro nelle scuole (per una lettura critica dei libri scolastici ad esempio, soprattuttto nella scuola dell’obbligo; o per un’educazione all’argomentazione), una maggiore attenzione da parte dei mass media in genere, una profonda operazione di de-colonizzazione e di “de-machizzazione” del nostro immaginario. Senza dimenticare di continuare a incrementare la consapevolezza generale dei discorsi d’odio (negare il fenomeno è la prima cosa che non dobbiamo fare) e degli effetti che questi anno sulle vittime dirette, indirette e sulla società nel suo insieme; e con l’obiettivo di ridurre, allo stesso tempo, le diseguaglianze e le discriminazioni nei fatti. Senza una nuova legge sulla cittadinanza, l’equazione sovranista italiano = bianco trova purtroppo terreno fertile. Chiudo però con un consiglio molto spicciolo, che si può forse seguire fin da subito: di fronte alla persona hater che mi insulta, evito sempre di rispondere per le rime. Anche l’ironia, a volte, risulta un’arma spuntata. Preferisco, semplicemente, ribattere con una domanda: “Buonista di merda? In che senso sarei buonista?”, “Intellettuale del cazzo? In che senso intellettuale? Mi spiegherebbbe che cosa vuole dire?”. Il problema è che spesso ingiuriandoci la persona hater riesce a metterci nell’angolo, lasciando a noi l’onere della prova. Rispondendo con una domanda, possiamo provare a rispedire questo onere al mittente. A volte questo si rivela un strumento efficace, se non altro per riportarci al centro del ring, in un evento discorsivo.

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