Valeria, una “maruchéna” da L’Aquila: «Che fatica all’inizio integrarsi qui»

Arrivata negli anni Settanta per lavoro, ha subìto i tanti pregiudizi riservati spesso alle persone del Sud. «Per i ravennati era “marocchina” anche la mia collega di Fano, un’ora e mezza di auto da qui…»

Valeria Storie Meticce
di Matteo Cavezzali

«All’inizio integrarsi è stato davvero difficile. Quando parlavo mi guardavano male, mi prendevano in giro per il mio accento, secondo loro “sbagliato”. I ravennati sono molto freddi, non salutano. Quando sono arrivata avevo quasi trent’anni e non riuscivo a socializzare. Erano tutti gruppi di amici che si erano formati al liceo e sembrava che non accettassero nuove persone. Mi sentivo dire “stasera andiamo a cena da Tizio”, e mai che mi chiedessero se volevo andare anche io».

Valeria non è immigrata dall’Africa o dall’estremo oriente, ma dall’Abruzzo. Non è nera di pelle, non ha gli occhi a mandola, ma si è sentita a lungo “diversa”. «Sono arrivata a Ravenna negli anni ’70. Mi trasferirono per insegnare in una scuola del centro. Oggi quando si parla di “migrazione” si pensa solo agli stranieri, ma la mia fu una vera e propria migrazione. Lasciai i miei genitori, venni qui a cercare una casa, e quando sentivano l’accento del sud non tutti erano contenti di affittarmela, te lo garantisco. Ero una ragazza sola che voleva lavorare. Se avessi potuto insegnare all’Aquila sarei rimasta lì. Quando arrivai la prima volta era settembre, ma c’era una nebbia incredibile. Mi presi paura, pensai: dove sono finita?».

«La cosa però che più mi colpì fu la freddezza delle persone. Incontravo per strada delle colleghe e a malapena mi salutavano. All’inizio pensai di star loro antipatica, poi capii che per loro era normale così. Da noi per strada è un continuo salutare e baciarsi, anche con persone che si conoscono appena. Ci ho messo tanto a fare delle amicizie a Ravenna. Quando arrivai sapevo che questa zona era “rossa”, quindi me la ero immaginata più progressista, credevo mi sarei inserita subito nel tessuto sociale cittadino. Non fu così…».

«Ricordo anche episodi che, col senno di poi, potrei definire di razzismo. Insegnavo italiano. Un genitore di un ragazzo che andava malissimo venne a colloquio e disse che la colpa era mia, sostenendo che il figlio non capisse per via della mia parlata. Disse che l’Italiano io non lo sapevo e non avrei dovuto insegnarlo. Il figlio scriveva nei temi “ho rimasto” e per il padre si diceva così, ero io che parlavo un’altra lingua. Oggi può far ridere questa storia, ma ti assicuro che io andavo a casa in lacrime. I primi amici che mi feci a Ravenna erano “immigrati” come me: era pieno di marchigiani, che lavoravano all’Enichem, poi pugliesi, campani, ma anche veneti o piemontesi. La cosa che ci accomunava non era il Sud, ma essere tutti “fuori” dalla propria città, lontani da casa, dai genitori dagli amici d’infanzia».

«Mi chiamavano “maruchéna”, marocchina. L’Aquila dista 350 chilometri da qui. Per loro che fossi siciliana, calabrese, abruzzese non importava, tutti marocchini. Anche un’altra collega delle marche era “marocchina”. Veniva da Fano, che dista un’ora e mezza di macchina. Un’ora e mezza di macchina verso Sud però, e quindi niente da fare, “marocchina” anche lei. Adesso che ci sono i marocchini davvero se la prendono con loro, ovviamente. Si sono inventati delle nuove parole però, perché marocchini non andava bene. “Africani”, che è come dire a un ravennate che è Indo-Europeo. L’Africa è enorme. Oppure “clandestini”, da calam-dies ovvero “che si nascondono al giorno” o genericamente “migranti”, ovvero persone che si muovono».

La mia amica calabrese, la prima persona con cui ho legato quando sono arrivata qui, li odia visceralmente. Detesta gli immigrati africani, i musulmani, e io le dico, “guarda che non eravamo mica tanto diverse da loro”. Anzi, nonostante fossimo così “uguali” alle persone che vivevano qui non riuscivamo a integrarci, pensa se fossimo state scure di pelle e se avessimo avuto difficoltà a capire quello che ci dicevano o a trovare in mensa solo cose che non potevamo mangiare. Ma lei niente. Non ne vuole sapere. Oggi non ci si arrabbia più per difendere i diritti dei lavoratori, o degli studenti, si pensa solo agli africani, come se dipendesse tutto da quello».

«Mio marito, che oggi non c’è più, amava i film western, lì il forestiero che arriva nel paese è quello che porta scompiglio all’inizio, ma che poi riesce a lasciare qualcosa di nuovo, che migliora la vita delle persone. Forse era perché aveva capito questo che si era innamorato di me, anche se ero una “maruchéna” riottosa e un po’ matta. Sua madre non era mica contenta all’inizio, diceva che “avrei portato su tutta la famiglia”. Poi anche lei si è addolcita. Un po’ di anni fa sono andata in pensione. Sono vedova da molto tempo. Avevo sempre pensato di tornare a casa una volta finito di lavorare, ma il terremoto ha distrutto irrimediabilmente il mio paese e i miei ricordi. Penso però che forse sarei rimasta comunque a Ravenna, alla fine mi ci sono abituata. È una terra aspra e dolce allo stesso tempo, ora ci sto bene. Ci è solo voluto più tempo di quello che avevo immaginato».

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