La (bella) routine dei Teenage Fanclub

C’è questo dibattito in corso da qualche parte, tra pochi intimi, sulla presunta morte del rock, inteso come musica che si basa prettamente sulle chitarre elettriche (il basso e la batteria). Non mi sono mai piaciute certe sentenze, ma è indubbio che – come credo di aver già scritto qui almeno un paio di volte – le novità più interessanti, i suoni più originali, le produzioni più riuscite in questi ultimi anni (diciamo dieci) provengono da mondi dove le chitarre sono spesso in secondo piano: dalla musica black, dall’hip hop, da certi ambiti anche del cosiddetto mainstream e delle iperproduzioni. Umberto Palazzo per esempio, ex leader dei Santo Niente, storico fondatore dei Massimo Volume ora semplicemente – a sentire lui – dj di successo e guru di Facebook, sta portando avanti una vera e propria campagna contro il rock più tradizionale e le chitarre a favore di Beyoncé e dei sintetizzatori, tanto per dire. Non saprei. Quello di cui sono certo è che ogni tanto tornare alle chitarre per me è un po’ come tornare a casa. Accennato del nostalgico nuovo Dinosaur Jr, un’altra band storica tornata in questi giorni (il loro disco nuovo, che si chiama “Here”, esce ufficialmente il 9 settembre) è una che il successo lo ha solo sfiorato – in Inghilterra in realtà lo ha anche toccato, per poco – ma che ha quello strano potere di riuscire a entrare davvero nel cuore di tanti appassionati veri, sfigati come me, ma anche tipo Kurt Cobain (secondo cui erano «la migliore band del mondo) o gli Oasis (secondo cui erano «la seconda migliore band al mondo», dopo gli Oasis naturalmente). Loro sono i Teenage Fanclub, il classico gruppo di culto scozzese per chi ha presente la scena indie-pop scozzese creata in particolare da etichette come Postcard e Creation. Chitarre, melodie cristalline, raggi di sole, scrosci di pioggia, chitarre, melodie cristalline, raggi di sole, scrosci di pioggia e alcune variazioni sul tema. Belle canzoni, soprattutto, di quelle che ti fanno innamorare. Loro inizialmente sono stati l’emblema del cosiddetto power pop, lasciando poi perdere col passare degli anni l’elemento più “power” a favore di quello “pop”. Di quello in particolare figlio di Beatles, Byrds e (soprattutto) Big Star o del cantautorato (anche il loro frutto di più menti) degli australiani Go-Betweens. Tutto molto bello, con una carriera che va avanti dal 1990, tra picchi (almeno “Bandwagonesque” e “Grand Prix”, ancora freschissimi ascoltati oggi), chicche per cultori (lo spassoso disco con Jad Fair) e anche una certa routine. Il disco nuovo, per esempio, potrebbe sembrare routine. Lo è, probabilmente. Poi al terzo ascolto scatta qualcosa. E ti innamori di nuovo…

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