La «diva americana» per niente radiofonica

Lana Del Rey Parlo sempre molto volentieri di prodotti venduti come pop che in realtà pop non lo sono per nulla.

Se il 2019 era l’anno, in questo senso, di una star di 18 anni ancora da compiere come Billie Eilish, ora è diventato anche quello di Lana Del Rey. Che, tanto per inquadrare subito e bene il fenomeno, si esibirà nel giugno del 2020 in un’unica data italiana non in un luogo qualsiasi, ma all’Arena di Verona.
Si tratta del tour di presentazione del suo ultimo album – il sesto, nonché il quinto consecutivo uscito per una “major” –, l’atteso Norman Fucking Rockwell!, uscito lo scorso 30 agosto e in grado di debuttare al numero 3 delle classifiche di vendita americane e direttamente al numero uno di quelle inglesi. Con un disco che non ha pezzi radiofonici, non segue alcun modello di marketing, non ha nullo di preconfezionato a uso e consumo delle masse.

In fondo la globalizzazione, la fine del mercato discografico, il web, hanno avuto davvero anche molti aspetti positivi. Come quello che può essere definita dall’Ansa «una diva americana», una cantautrice di talento che fa musica malinconica e per alcuni (non sempre a torto) anche piuttosto soporifera. Le sue ispirazioni, soprattutto in questo nuovo album, vanno da Joni Mitchell a Leonard Cohen, da Neil Young ai compagni Crosby, Stills & Nash, niente di particolarmente nuovo o emozionante, immagino, in particolare per i tanti giovani che hanno il suo poster in camera.

Uno strano successo commerciale costruito però negli anni grazie a un’immagine forte e a dischi comunque leggeri, in grado di piacere davvero a chiunque, da cui questo ultimo lavoro si discosta però notevolmente, se non nello stile, soprattutto nella profondità, a partire dai testi e poi naturalmente nelle scelte musicali, grazie forse alla collaborazione con Jack Antonoff, il produttore delle popstar (Taylor Swift, Lorde, St. Vincent) che anche in questo caso ha cercato prima di tutto di dare vita a un’identità forte dell’artista. In un disco in cui si passa da ballate al pianoforte a pezzi soft-rock, dal blues minimalista al folk, toccando vette assolute in un pezzo come “Venice Bitch” che brilla anche per la sua coda strumentale. Ce ne fossero, in fondo, di album (e di “dive”) così…

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