La splendida eccezione di Alice Coltrane, tra i grandi dell’età d’oro del free jazz

Alice Coltrane – Journey In Satchidananda (1971, Impulse! Records)
Alicecoltrane«Il jazz è una musica maschia e negra». Ho letto questa fulminante risposta su una rivista jazz degli anni ‘70 (la domanda era «Cosa ne pensi di Stan Getz», che era bianco) arrivata chissà come decenni dopo nel bar che bazzicavo. Mi pare che l’intervistato fosse Lionel Hampton, ma non potrei giurarci. In ogni caso poco importa: erano anni in cui l’espressione “politicamente corretto” non era ancora stata coniata, e le interviste erano conseguentemente molto più sfiziose. Nei “liberi” anni ‘70, rivendicare la negritudine del jazz era sicuramente importante, ma pensate in che contesto si muovevano le (relativamente poche) musiciste di colore, che di solito erano cantanti, molto raramente musiciste. Tra le eccezioni Alice Coltrane, moglie del mostro sacro John Coltrane. Purtroppo meno conosciuta del marito, è stata invece una favolosa arpista e un’altrettanto eccellente pianista. Nei suoi dischi si percepisce, anzi, letteralmente si respira una libertà di approccio pazzesca, non v’è alcun dubbio che siano nati in uno stato di profonda ispirazione, a mio modesto parere eccezionale persino per quegli anni baciati dalle Muse.

I suoi primi album da solista, tutti targati Impulse! e spesso suonati insieme al marito e Pharoah Sanders, sono una meraviglia unica. Ptah, The El Daoud,Universal Consciusness, Lord Of Lords, A Monastic Trio, c’è l’imbarazzo della scelta. La mia oggi cade su Journey In Satchidananda perché è forse il primo in cui si esplicita il suo amore per l’India, che la porterà anche a seguire un guru (il Satchidananda del titolo) e sparire dalle scene per molti anni per dedicarsi alla spiritualità. A parte questo, il disco è veramente ispiratissimo, jazz libero ma fruibile da chiunque, con influenze indiane (ovviamente) ma anche mediorientali e africane (in particolare nel pezzo di chiusura “Isis and Osiris”). La title track è forse il classico da citare, ma anche “Something About John Coltrane”, in cui prende in prestito temi del marito rendendoli assolutamente armoniosi e coerenti col resto del disco, ci mostra come Alice fosse un’artista assai consapevole, probabilmente devota all’indiscutibile grandezza musicale del compagno, ma anche pronta a rielaborarne i temi senza timore reverenziale, probabilmente sapendo di essere anch’essa destinata e restare tra i grandi nomi dell’età d’oro del free jazz.

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