Oltre il reggae, alla riscoperta di una popstar

Bob Marley – Natty Dread (1974)

Bob Marley “Naddy dread”

Dai, non fate quella faccia. Mica posso vivere solo di pane e metal. Capisco che Bob non sia la cosa più hype del momento, ma è un pezzo bello grosso di storia del nostro secolo, anche al di fuori della musica. E poi ogni cosa è ciclica, tornerà di moda anche lui. Se siete molto giovani, sappiate che senza Bob difficilmente oggi balleremmo al ritmo di dubstep, non ci rilasseremmo sui bassi del dub, e non salteremmo ai concerti ska. Bob Marley ha portato il reggae alle masse. Ci sono almeno tre periodi storici in cui nella vita di un giovane musicomane è stato necessario prendere posizione su Marley: pro o contro. Il primo è stato durante l’apice del suo successo, diciamo tra il 1973 e il 1980. Parliamo di successo planetario, stadi pieni in tutto il mondo. Sapete quale è stato il primo concerto della storia a San Siro? Bob Marley, 1980, centomila paganti. Apriva Pino Daniele, tra l’altro. Benpensanti scandalizzati dal messaggio politico forte e dall’esplicito antiproibizionismo, giovani alternativi in visibilio. Io ero appena nato e mi sono astenuto. Il secondo è stato dopo la sua morte, nel 1981. Lui era una star, ma nel frattempo era arrivato il punk a stravolgere tutto. E quindi ecco i punk rifiutare le sue “positive vibrations”. Ed è qui che entro io, diciamo intorno al 1988. Un giovane metallaro che parte decisamente prevenuto, visto che nella mia scuola tutti i ragazzi radical chic adorano Marley e a me piace fare il bastian contrario. Ma un giorno, senza pensarci troppo, entro nel mio negozio di fiducia e scelgo una cassetta a caso: Natty Dread. Ci metto poco a decidere. Mi piace. Il terzo momento arriva negli anni 90. Io giro i centri sociali di Milano alla ricerca di input, ma tutti propongono solo reggae e ska. Finisco per odiare il reggae, accecato da tanto monopolio, e ci vorranno anni prima di riscoprirne i gioielli. Ma Bob Marley non è mai stato in discussione, perché lui è molto oltre il reggae, è una popstar.

Mick Jagger tra Bob Marley e Peter Tosh

La celebre foto di Mick Jagger seduto tra Bob e Peter Tosh (il suo storico chitarrista), con un sorriso ebete che la dice lunga sulle “sigarette” che aveva fumato, testimonia in pieno un’epoca del rock che non tornerà più, una scena in cui Marley era perfettamente inserito, perché, per quanto oggi sia difficile crederlo, era una scena di veri irregolari, gente che per vari motivi, se non fosse stata su un palco a cambiare la storia, sarebbe stata in prigione o in mezzo a una strada. E gli album di Bob Marley sono di una perfezione pop al livello di Beatles o Smiths o Moby o Portishead o chi preferite. In una discografia di questo livello, l’album preferito è spesso quello che ti ha connesso per la prima volta con l’artista. Quindi il mio è Natty Dread, nonostante il cambio di formazione rispetto agli album precedenti faccia perdere qualcosa (non ci sono infatti più i carismatici Peter Tosh alla chitarra e Bunny Livingston alle percussioni, ma si aggiunge il trio di coriste “The I-Trees” che fa un lavoro eccezionale). Ho provato spesso a trovare un pezzo sbagliato in questo disco. Niente da fare. L’apertura con “Lively Up Yourself”, un classico anche dal vivo, è efficace e coinvolgente, ma è solo l’inizio. Segue uno dei due pezzi che portano Marley nella storia del pop, quel “No Woman No Cry” che tutti abbiamo sentito almeno una volta (o migliaia di volte, dipende dal contesto in cui avete vissuto). (Per la cronaca, l’altro è “Buffalo Soldier”, e anche questo l’avete sentito tutti, per lo meno in forma di coro da stadio, come il Po Po Po dei White Stripes. Un giorno dovrei scrivere un pezzo sulle versioni originali dei cori da stadio, magari a 4 mani con un tifoso della curva del Ravenna. Comunque sono quasi tutte arie d’opera, e trovo la cosa molto divertente). Tornando all’album, segue il mio pezzo preferito in assoluto di Bob: “Them Belly Full”, la perfetta canzone di protesta, seguita a ruota dall’altro capolavoro “Rebel Music”. Si cambia lato della cassetta, ed ecco “So Jah Seh”, canzone rastafariana che inizia tristarella e si evolve in saltellante, al contrario di “Bend Down Low”, che inizia come una filastrocca stupida, dandoti l’impressione di aver finalmente trovato il pezzo brutto del disco, ed invece poi parte con un tiro pazzesco. In mezzo la bellissima title track, “Natty Dread”. La penultima canzone in un album di solito è la più debole: niente da fare, “Talkin’ Blues” è un altro classico. E chiude “Revolution”, che potrebbe essere un pezzo un po’ meno forte degli altri, se non fosse per quel finale struggente che ripete all’infinito “Lightning.. Thunder.. Brimstone.. and Fire”. Fulmine, Tuono, Zolfo e Fuoco. Brucia Babilonia…

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