Quando il più grande di tutti era ancora solo un pianobarista…

Tom Waits – “The Heart Of Saturday Night” (1974)

Della serie “non si nasce imparati”. Tom Waits è uno dei grandissimi, per molti, tra cui il sottoscritto, è il più grande cantautore, la più incredibile voce maschile contemporanea. Quel timbro inconfondibile, quel vocione gutturale, roco, che sembra non farcela e ti comunica sillaba per sillaba lo sforzo di arrivarci. E ci arriva sempre, emozionandoti per quello che dice e per come lo dice. Ecco, quella voce non è sempre stata così. La cifra stilistica del numero uno, per quanto dotato di grande talento sin dall’inizio, non è sempre stata perfetta. Nel 1974, quando esce The Heart Of Saturday Night, Tom Waits è ancora solo un eccezionale pianobarista. Lo stesso discorso vale per il precedente Closing Time. Queste canzoni da crooner, da “confidential mood”, jazzate, ben fatte, mancano ancora di qualcosa. Per quanto possiamo immaginare che già non fosse proprio uno stinco di santo, e che amori falliti e nottatacce girovaghe facessero già parte della sua vita, dovrà fumare parecchio, bere parecchio Bourbon, infilarsi molto più nei bassifondi della vita e dell’anima, prima di diventare il gigante che è diventato. Perché ci interessa questo album? Perché è il “prima”, il “making of”. Come Paolo Conte, l’unico italiano degno di essere accostato a Tom (e ci dispiace per gli altri). Andatevi a sentire i primi dischi di Conte. Registrati malissimo, senza gusto, arrangiati secondo la moda del momento, le versioni originali dei suoi primi classici lo fanno sembrare di poco superiore a Memo Remigi. Guarda caso, un altro pianobarista. Ma le canzoni c’erano, e la gente se ne accorgeva lo stesso. Un po’ come queste ballate del Cuore del Sabato Sera. “San Diego Serenade”, “Shake Me Timbers”, “Please Call Me, Baby”, anticipano quelle che renderanno Tom Waits uno dei cantanti più struggenti di tutti i tempi. Con una voce che a tratti ricorda lo Springsteen di Nebraska. “Diamonds On My Windshield” invece preannuncia il gusto per le storie di ordinaria devianza, raccontate bene, come solo lui sa fare, col gusto per i pulp di quart’ordine, surreali come il loro narratore. Parlata, su una base jazz trascinata da un “walking bass” forsennato, è uno dei miei pezzi preferiti dell’album. “Drunk On The Moon” potrebbe essere quasi un manifesto per la sua musica, almeno per il titolo. Il disco si chiude con il pezzo gemello della canzone che dà il titolo all’opera. Dal Cuore si passa al Fantasma del Sabato Sera (“The Ghost of Saturday Night”), e già veniamo proiettati nell’immaginario di una parabola notturna favolosamente perdente, iniziata forte, finita malino, probabilmente ad orari impensabili, con tanti rimorsi e altrettanti rimpianti, in qualche tugurio. Infatti il sottotitolo è “Afterhours At Napoleon’s Pizza House”. Le ore piccole da Napoleone, una pizzeria. Poi si scopre che la verità è questa solo in parte. A 14 anni Tom lascia la scuola, e va a lavorare da Napoleone Pizza, a San Diego, locale frequentato da marinai e ballerine di night club. Ogni notte stacca alle 4. La leggenda inizia più o meno lì.

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